“Siamo come sospesi”: ma non rinunciamo a fare la nostra parte

Prosegue il viaggio nel mondo delle Comunità nazionali di Capodarco per raccontare come hanno affrontato i momenti più difficili dell’emergenza coronavirus. A Gubbio la Comunità di Capodarco dell’Umbria non ha rinunciato, seppur in spazi concessi a singhiozzi, a costruire ponti di vicinanza, solidarietà e presenza.

“Siamo come sospesi, scrive Giovanna Perugino, coordinatrice della struttura, nata nel 1966 per combattere il fenomeno dell’emarginazione. È la frase che più riecheggia in uno spazio di tempo che sembra esserci stato concesso a singhiozzi, in cui per ’stringerci’ siamo tutti chiamati a restare distanti e a sentirci parte di una comunità nonostante i vissuti di solitudine di cui ciascuno di noi sta facendo esperienza. In questo tempo così violento per la vita di ciascuno, la Comunità di Capodarco dell’Umbria non rinuncia a fare la sua parte. È evidente che l’emergenza del coronavirus sia stata motivo di forte cambiamento personale, sociale e culturale, e che abbia minato in modo repentino una ‘forma mentis’ ormai certa del benessere conquistato negli anni che ci separano dai vecchi racconti dei nostri nonni, quando per la patria venivano tolti all’affetto delle loro famiglie e venivano spediti al Fronte in guerriglia con la tenue probabilità di farvi ritorno. In un attimo di vita, ci siamo ritrovati a non essere. Il lavoro che facciamo è l’unica cosa che ci ricorda che siamo ancora vivi e che nonostante tutto il mondo ha ancora bisogno del nostro aiuto, che il valore dello stesso non ci viene dato dallo stipendio a fine mese ma dagli occhi terrorizzati dei nostri ragazzi che guardandoci con una mascherina sul viso autoprodotta si preoccupano di quanto possiamo respirare bene e quanto male l’elastico dopo tante ore possa farci male. Sono i nostri ragazzi, gli ospiti delle nostre strutture, un miscuglio incoerente di amore e follia, che in questi giorni a porte chiuse, trascorrono le loro giornate totalmente isolati dal mondo con noi operatori che continuiamo nel nostro lavoro con la paura costante di poter essere per loro veicolo inconscio della malattia”.

“Sin dai primi giorni dell’emergenza – prosegue -, nonostante fossimo ancora del tutto ignari di quello che da lì a poco sarebbe successo, l’intera équipe lavorativa coordinata dalla direttrice sanitaria Paola Biraschi, ha messo in atto tutta una serie di procedure straordinarie per il contenimento del contagio e la tutela della salute di tutti, ospiti e operatori compresi. Per prima cosa, a tutti gli operatori è stato consigliato di limitare gli spostamenti fuori dal lavoro e di assumere vitamine e integratori in egual modo agli ospiti per rafforzare in via preventiva il sistema immunitario. Sono stati chiusi gli accessi agli esterni e in contemporanea anche i servizi di semi-residenzialità. Nell’attesa che arrivassero dalla Protezione civile mascherine e tutti i Dpi necessari, siamo stati costretti ad autoprodurli. Si avvertiva un gran silenzio, si lavorava a testa bassa, ognuno assorto nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni… gli occhi delineavamo distensione e serenità solo quando incrociavano i visi spaventati dei ragazzi per trasmettere loro conforto, leggerezza e tacita consolazione… ‘andrà tutto bene!’ E allora le pareti si sono riempite di fiori di carta colorata, le sale di musica allegra e giochi di gruppo, di balli a distanza e baci al vento…una luce in un presente incerto”.

A testimoniare più da vicino i risvolti della vita di comunità sono alcuni interventi di operatori che, da inizio emergenza, lavorano in prima linea nell’assistenza. “È il tempo del paradosso del contatto fisico – racconta C.T, un operatore Oss della realtà umbra -. Paradosso perché l’assistenza ai nostri ragazzi, nel soddisfare i loro bisogni primari, ha bisogno del contatto fisico ed è quello che manca a loro e mi verrebbe da dire anche a noi, il contatto fisico, ricco di supporto affettivo, come un abbraccio, un bacio del buongiorno e della buonanotte, una carezza…e poi che dire delle mascherine…hanno una doppia faccia. Proteggono ma celano l’arma più potente che abbiamo contro la tristezza e la malinconia, il sorriso, elemento per me fondamentale per affrontare qualsiasi problema nel lavoro come nella vita”.

“L’unica cosa che possiamo fare – spiegano altri operatori -, è trasferire il sorriso agli occhi per vederlo riflesso negli occhi dei nostri ragazzi, dei nostri cari, consci del fatto che è l’unica arma rimasta per alleviare qualche sofferenza. Quel silenzio, all’inizio assordante, diventa rilassante se pian piano ti abitui. Quel vuoto triste di figure e colori, dopo un po’ diventa pace. Basta solo non guardare dal lato ‘sbagliato’. Per i nostri ragazzi è forse più difficile, forse serve solo più tempo o ancora meglio qualcuno che li guidi a scoprire l’altro lato della medaglia. È proprio quest’ultima azione che ci rende orgogliosi di essere ciò che siamo e di farci credere di essere al posto giusto nel momento giusto, accanto e dentro ai loro cuori”.