Storia

La Comunità di Capodarco nasce nel Natale del 1966. La radice della nascita è da collocare nel mondo del cattolicesimo sociale. Nei viaggi a Lourdes e Loreto – unica occasione perché i disabili possano uscire dagli Istituti dove sono isolati – un sacerdote, don Franco Monterubbianesi, intuisce che qualcosa può cambiare nella vita di molti ragazzi e ragazze che, con la scusa d’improbabili terapie riabilitative, di fatto, sono bloccati negli “istituti”, ambienti chiusi e inutili: sottoposti a rigide regole istituzionali, separati tra maschi e femmine, non hanno futuro. L’inizio è spontaneo, precario, utopico. Ben presto i tredici disabili che abitano con don Franco la villa abbandonata nelle Marche (Capodarco – Comune di Fermo) diventano oltre cento. Provengono da varie regioni d’Italia: Campania, Friuli, Puglia, Sardegna, Umbria. Un secondo gruppo numeroso di giovani (italiani e stranieri) partecipa all’esperienza che oscilla tra una “comune” e una “comunità”: sono i ragazze e le ragazze del ’68 “minore”. Se molti dei giovani contestatori si erano dedicati alla lotta politica, molti altri si erano diretti verso il sociale; altri ancora si dedicheranno al mondo della cultura e della comunicazione. Il clima è pieno di fermento e coltiva un orizzonte di ampio respiro: in parole esplicite (anche se oggi appaiono “puerili”): occorre cambiare la società.

I primi “sposi” della Comunità

Nell’esperienza limitata di una comunità nata nella periferia del mondo, si celebrano i primi matrimoni tra persone disabili cui seguiranno figli nati in comunità, l’approccio al lavoro (sorgeranno cooperative di lavoro), alla cultura (molti disabili riprendono gli studi fino all’Università). La comunità vive e cresce insieme: sono tutti un po’ fondatori perché sono impegnati nel realizzare il sogno che avevano voluto.

Accogliere, condividere, progettare futuro: i valori. Il principio base della Comunità è accogliere. Significa occuparsi della persona con tutta la sua storia. E’ necessario un altissimo concetto di persona, capace di fugare paure, pregiudizi, egoismi. Le radici dei motivi dell’accogliere (siano esse politiche o emotive) non sono moltissime: amore, amicizia, compassione, volontà di supere il male e il dolore, ma anche la visione di una società giusta, benevola, coerente, ugualitaria. Il secondo moto dell’anima è condividere. Entrare nella vita dell’altro e farsi condizionare la propria. Il passaggio è delicato. La condivisione comunitaria è semplicemente vivere la vita insieme con comuni ideali: nella stessa casa, con lo stesso cibo, rispettando gli orari essenziali della giornata. Infine il terzo moto dell’anima è progettare futuro. Questa dinamica indica che l’interessamento dell’amore guarda lontano. Cerca soluzioni e prospettive. Inventa percorsi; procura risorse. Anche nelle situazioni più difficili c’è sempre uno spiraglio che fa guardare lontano. Probabilmente non darà soluzioni definitive, ma mette in moto doni e occasioni che altrimenti rimarrebbero nascosti

Fare comunità significa…

– COMPRENSIONE. “Prendere l’altro con-me per quello che egli è”.  E’ difficile immedesimarsi nell’altro per capire che cosa desidera, come vuole essere ascoltato, di che cosa ha bisogno. E’ anche la condizione previa per entrare in relazione.

– SOLLECITUDINE. In parole comprensibili indica la cura affettuosa e operosa dell’altro; caricarsi la storia dell’altro e impegnarsi per lui.

– BENEVOLENZA. Favorisce la fiducia e l’affabilità perché nelle parole e nei gesti s’intravvedono le condizioni di essere accolti senza paura.

– CORTESIA. Non un formalismo di buona condotta,  ma disposizione dell’anima.

– MITEZZA. Virtù molto rara: atteggiamento dialogante, disponibile, mai impositivo.

– GRATUITA’. Generosità, donazione, fiducia nel bene di là dei risultati. In un mondo dove tutto sta diventando merce; persino le relazioni.

– GRATITUDINE. E’ la risposta alla gratuità e alla benevolenza. Non riguarda solo chi deve ricevere il grazie, ma anche chi deve esprimerlo.

– PERDONO. E’ una grande capacità che confida nella comprensione degli errori; sorge dalla certezza che l’altro può cambiare.

– TESTIMONIANZA. E’ importante dare esempio concreto dei valori in cui si crede. 

Nuove comunità nascono in Italia

Dopo il periodo epico degli inizi della Comunità, verso il 1972 si fa sempre più forte il desiderio di ritornare alle “proprie terre”. Un processo che nel tempo si allunga fino alle soglie degli anni ’90. Le Comunità di Sestu e di Udine saranno le prime a diventare autonome. Seguirà la nascita della Comunità di Roma, di Bergamo, di Lamezia e man mano tutte le altre. Nel 1984, con la riforma dello Statuto della Comunità, si cristallizza la situazione. Esiste un Ente Morale, denominato “Comunità di Capodarco” cui aderiscono le singole Comunità che conservano una propria autonomia amministrativa e gestionale. Ha lo scopo di mantenere unite le comunità, permettendo l’evolversi dei singoli gruppi, conservandone i principi ispiratori. Nel tempo alcune si distaccheranno dall’adesione a Capodarco, altre scompariranno, altre aderiranno. Oggi le comunità sono 14 in 8 regioni e 3 all’estero.Sono 1.226 le persone accolte per 626 addetti e 430 volontari. Oltre 30 mila le prestazioni riabilitative erogate a 1.100 utenti  (I dati si riferiscono al 2015).

I servizi, dallo spontaneismo all’accreditamento

Le Comunità locali di Capodarco nel tempo sono “costrette” a misurarsi con il proprio territorio. L’ambito delle azioni comunitarie si mantiene all’interno di due grandi capitoli: la disabilità (sia fisica che mentale); il mondo dei minori, ivi comprese le famiglie composte da figli minori con le proprie madri. Alcune comunità si misurano con i problemi della dipendenza patologica, della malattia psichiatrica, degli immigrati. Le forme d’intervento vanno dalla riabilitazione ai centri diurni, dalle comunità residenziali ai cosiddetti “dopo di noi”. Nuovi orizzonti si disegnano nel futuro delle comunità. Da una parte garantire progetti di vita autonoma con inserimenti abitativi e lavorativi; dall’altra garantire una risposta appropriata ai bisogni “estremi” delle malattie invalidanti progressive o di disabilità gravi e gravissime. L’esigenza di specialità si fa sempre più forte ed esigente: le istituzioni pubbliche tendono a delegare le forme che esigono molta attenzione e dedizione. Non sempre il rapporto è leale e coeso; non mancano situazioni di conflittualità di competenze, aggravate da risorse sempre più esigue.

UNA CASA PER TUTTI – PHOTOGALLERY STORICA

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