“Senza conservanti” la rubrica di Vinicio Albanesi. N.1 – IL TUMORE

 

Ho letto l’intervista che Michela Murgia ha pubblicato sul Corriere della Sera. Ha voluto rendere pubblica la sua malattia e ha raccontato come la sta affrontando, determinando una fitta serie di reazioni.

Sempre più spesso le malattie temute – importanti come dicono i medici – sono rese pubbliche da personaggi celebri. È un modo di non vergognarsi di eventi che in genere si tengono nascosti per paura, per vergogna. Il tumore è una di queste malattie: per la verità gli oncologi sostengono che è una malattia come le altre, dalla quale si può guarire e morire. La ricerca scientifica è intensa: l’immunoterapia è uno degli interventi sempre più utilizzati, perché efficaci.

La scrittrice ha identificato la malattia con sé stessa, non ritenendola estranea alla sua vita. È il modo classico e antico con il quale le malattie sono vissute; non sempre, per la verità. Ognuno, con l’ipotesi di morte annunciata, reagisce personalmente. Ricordo una dottoressa, malata di cancro ai polmoni, che, fino alla morte, ha negato che ne fosse stata colpita; era convinta fosse una polmonite.

Altri reagiscono con la scelta della solitudine; si chiudono in sé stessi e non vogliono vedere e sentire nessuno. Un signore mi confessò che il dolore più grande, per il tumore al pancreas, fosse determinato dagli sguardi e dai commenti di chi, incontrandolo, gli chiedevano come stesse. Quegli sguardi erano pieni di giudizi falsi e di frasi fatte; dettate con lo scopo di consolare, ma in realtà frutto di compassione malevola.

Dell’intervista mi ha colpito anche il modo di convivere con la malattia in una specie di “famiglia allargata”: il segno evidente è di non voler rimanere sola. Sembra particolare l’intenzione di sposarsi, perché qualcuno, dopo di lei, deve decidere: un po’ marito che va, marito che viene, parlando male delle famiglie tradizionali, come se la seconda scelta fosse garanzia di autenticità e sincerità. Ma lei, con le sue risorse intellettuali e critiche, può permettersi molto.

Il pensiero si allarga agli hospice, i Centri nei quali si va a morire. Strutture molto dignitose, ma pure sempre anticamere della morte. Può accedervi un familiare alla volta, senza orari. C’è chi, ancora cosciente, rifiuta il ricovero, chiedendo di morire in famiglia. La vita si può condividere, la morte non si condivide, perché si è soli. Se gli anni vissuti sono stati pieni di soddisfazioni e di felicità, la morte può essere vissuta come termine doloroso, ma naturale: terribile se si è in debito con qualcuno o qualcosa; diventa ingiusta e crudele.

Un mistero naturale e necessario, temuto e non evitabile. Forse il segno dei limiti dell’esistenza, come per la terra, per gli alberi, per gli animali. Per le creature intelligenti resta il desiderio di capire. Ma l’intelligenza si confonde con emozioni, desideri, aspettative, non trovando giustificazioni.

Il silenzio e la vicinanza sono gli unici atteggiamenti possibili di fronte a chi sta male. Un mistero e insieme una necessità. Chissà se qualcuno o qualcosa dirà che cosa avviene dopo la morte. Per alcuni il nulla, per altri chi ha dato la vita, la riprende con sé. E’ un desiderio e una speranza, anche scommessa: non doverosa, ma utile.

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SENZA CONSERVANTI
La rubrica del Giovedì di Vinicio Albanesi