La storia di Matteo (nome di fantasia) è la stessa di centinaia di altri giovani con un passato di tossicodipendenza, ma ciò non toglie nulla alla sua assurdità. Matteo oggi ha 26 anni, una moglie, un lavoro stabile (il barista) e un altro (l’allevatore di cani) che sogna e vorrebbe avviare appena possibile. Ma tutto questo tra pochi giorni si dovrà bloccare, perché il giovane dovrà andare in carcere a scontare una condanna a 6 anni per un reato commesso nel 2007, quando aveva 18 anni ed era totalmente un’altra persona.
Matteo nasce in Italia da una donna straniera appena arrivata nel nostro paese e ancora ignara di essere incinta. Non conoscerà mai il padre e la sua infanzia sarà costellata di soggiorni in affidamento presso comunità di accoglienza o famiglie, alternati con burrascosi periodi di ricongiungimento con la mamma. Quando Matteo ha 10 anni, lei si sposa con un italiano, ma la nuova famiglia fa di tutto per escludere questo bambino già molto irrequieto e non fargli avere contatti con la sorellina nel frattempo arrivata.
Matteo conosce la strada da adolescente: reati piccoli e reati più seri, spaccio, vari periodi in carcere minorile e in quello per adulti. Conosce l’abuso di qualsiasi sostanza stupefacente, compie precocemente la “carriera” più classica del tossicodipendente deviante ed emarginato. Quando, a 19 anni, arriva dalla detenzione in una comunità terapeutica delle Marche dice chiaramente che per lui “è meglio il carcere”, dove è sicuro di tornare presto. È convinto che sia quello il suo destino, ne è come affascinato.
Invece non andrà così. Matteo rialza la testa, riesce a lavorare “su se stesso” come dicono gli operatori che lo seguono con assiduità; scopre, anzi mette a frutto, la sua passione per gli animali, vorrebbe fare l’addestratore di cani; diventa affidabile, uno dei successi migliori della comunità. Da qui esce dopo un programma riabilitativo di 2 anni e mezzo e trova subito lavoro in una città vicina alla comunità: un contratto da barista a tempo indeterminato, che svolge ormai da 4 anni. Intanto si è fidanzato con una ragazza del luogo e insieme a lei ha cominciato a progettare la sua vita e la sua attività futura: un allevamento e una pensione per cani che ha già iniziato a popolare con alcuni cuccioli e ad attrezzare con quello che serve. Tre mesi fa si sposa nella comunità dove ha fatto il percorso riabilitativo, l’unico luogo, dice, in cui ha trovato una sua famiglia e una dimensione di una normalità.
Ma in questi anni c’era una pratica che viaggiava in direzione opposta al suo lieto fine personale: quel processo per una rapina a mano armata compiuta quando ne aveva 18 anni, e che lo aveva portato in carcere prima della comunità, era andato avanti: condanna in primo grado, condanna in appello, e a breve l’inesorabile verdetto della Cassazione. E’ infatti scaduto il termine per un eventuale ricorso e ora si aspetta solo che la suprema Corte emetta la sua sentenza, che sarà sicuramente di condanna. A quel punto due agenti delle forze dell’ordine, forse vestiti in borghese per non impressionare, gli busseranno a casa e gli diranno che devono portarlo in carcere a scontare la pena definitiva a 6 anni.
Lascerà a casa la moglie, i suoi cani, il suo lavoro, gli amici della comunità: l’intera sua nuova “normalità” spezzata da una giustizia che ancora una volta ignorerà ciecamente che la “rieducazione” di questo giovane è avvenuta da tempo. E che, pur nel rispetto delle sentenze, potevano essere disposte misure diverse dal carcere, senza il rischio di buttare via la faticosa e tenace rinascita di una persona che ha ancora tutta la vita davanti. (st)
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