“Entrate, questa è la casa di tutti”: la Comunità di Capodarco e i cambiamenti ai tempi del Covid-19

“Vietato l’ingresso ai non autorizzati” è questo il cartello che appare davanti all’ingresso della Comunità di Capodarco di Fermo, nella storica villa affacciata sul mare, in mezzo a un bosco, che ha raccontato innumerevoli storie e migliaia ne ha viste passare. Una casa da sempre aperta a tutti, giorno e notte, senza chiavi né campanelli. La “casa di tutti” come spesso la definiscono gli stessi comunitari. Nata sulle basi di quattro valori fondanti: l’accoglienza, la condivisione, il progettare futuro, capisaldi indiscussi di ogni azione quotidiana, messi a dura prova dall’emergenza Covid-19. A raccontare come è cambiata la vita in questi giorni all’interno di una realtà che da 50 anni accoglie la persona e le sue fragilità, è il vicepresidente Riccardo Sollini, in un lungo post pubblicato su Facebook il 13 marzo 2020.

“Nel Natale del 1966 nasce la Comunità di Capodarco di Fermo quando un gruppo di disabili con un prete, Don Franco Monterubbianesi, occupano una villa abbandonata a Capodarco di Fermo. Chi arriva in Comunità si sente di solito raccontare questa storia, che è diventata quasi mitologica, sembra sempre l’inizio di una favola ripetuta alle tantissime persone passate in questa casa, scritta sui libri e nei film”. Inizia così la lunga confidenza che Sollini condivide nel social. “La porta della Comunità è sempre aperta da all’ora, per un periodo all’ingresso c’era un cartello con scritto “’Entrate questa è la casa di tutti’, sicuramente nessuno di noi avrebbe mai pensato che a marzo del 2020 avremmo appeso un altro cartello con su scritto ‘Vietato l’ingresso ai non autorizzati’.
Il vicepresidente descrive una dimensione comunitaria quasi surreale: “Sembra domenica, ma non lo è, incontri persone con la mascherina che girano per casa e se c’è una cosa che caratterizza il nostro mondo è che ci sono tanti sorrisi, che le mascherine nascondono. Si legge la paura e si legge il timore negli occhi. Colpiti noi, come tutta Italia, nella dimensione che ci è più cara quella della fisicità, dell’abbraccio, dell’incontro nell’altro anche nello sfiorare una mano, donarsi un sorriso o una carezza. Una situazione surreale che mette a dura prova anche lo spirito e l’impegno di tutti quelli che in Comunità ci lavorano, coinvolti in una delle dimensioni più difficili, quello del prendersi cura di persone spesso fragili, in cui il contatto, il sentirsi addosso, è inevitabile, dal momento in cui la persona che hai davanti ha bisogno di te per poter svolgere tutte le azioni della ‘quotidianità’.

“Non so come finirà, perché finirà per forza, come non lo so, penso però che lo sforzo più grande in questi giorni sia proprio quello di continuare a trovare un sorriso da donare e una normalità di vita che sembra cosi lontana. Mi sono accorto di come istintivamente si rimane a distanza, di come se qualcuno si avvicina ci si sposta. Tutte misure giuste, assolutamente fondamentali per fermare un nemico del tutto invisibile e sconosciuto, per permettere a tutti di continuare a vivere nel migliore dei modi. Penso però forte al dopo, perché un po’ la dimensione di costrizione e isolamento, da film di fantascienza è un po’ la spinta in cui il nostro sistema di vita ci stava spingendo, con sempre più relazione virtuale in cui sociale diventa social, in cui la spesa la facciamo via internet. Chissà se la paura del contatto con l’altro, ci metterà in un mondo di chiusura ancora più forte, con il rischio di attrezzare le case per farle diventare funzionali e unico spazio di vita, oppure, se, la sete di umano, di necessario contatto dell’altro ci immergerà in un bisogno forte di astinenza all’abbraccio”

Impegnato a tamponare l’emergenza immediata, minuto per minuto, aspettando Decreti e ordinanze per riorganizzare gli spazi di vita, Sollini ha avuto poco tempo per fermarsi e pensare al dopo, ma venerdì sera tornando a casa, col buio, quel cartello bianco gli è rimbalzato dentro “come un monito, un segnale di storia che cambia e di strade che bisogna scegliere”. E in questa riflessione anche un timore, quello di vedere cronicizzarsi, individualismo e solitudine: “la sopravvivenza e l’animo umano sono per definizione egoistici e la normalità dell’allontanarsi uno dall’altro può diventare caratteristica della nostra vita”.
Le parole di chiusura sono dedicate alla gratitudine verso quanti portano ancora i loro sorrisi e verso le foto dei bimbi e degli ospiti delle varie realtà comunitarie che, attraverso cartelloni colorati, ci ricordano che “Andrà tutto bene”. E poi, il grazie agli operatori “che ogni giorno sfidano le proprie paure per essere al proprio posto, fondamentali nella vita di tutti i giorni”. La speranza è “che tutto questo incubo passi”, la volontà immediata, è invece quella di togliere quel cartello, che poco appartiene all’apertura verso l’altro, caratteristica fondante dell’impegno che la realtà porta avanti da quel lontano 1966. “Non rimetteremo il vecchio che fa molto anni ’70”, ma sicuramente la porta riprenderà ad essere aperta, sottolinea Sollini: “senza limitazioni, come la Comunità deve essere”.