Ogni qual volta qualcuno chiede di morire si riaccende la discussione sulla legge che lo permetta. Un secondo approccio è come giudicare moralmente l’atto della morte procurata. Ad ogni Parroco è capitato di dover celebrare il funerale di una persona che si è suicidata. Non con la prassi della morte assistita. Nella mia esperienza di Parroco ho celebrato i funerali per una persona anziana che si era impiccata con la corda sul ramo di un albero e di un giovane che si è gettato in un pozzo, senza che nessuno se ne fosse accorto e ritrovarlo dopo giorni di ricerca. Ho celebrato dignitosamente pregando con i propri parenti e senza tentennamenti perché mi sono appellato alla morale classica di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori che, parlando di peccato grave, insegnava che per una colpa grave erano necessarie tre condizioni: materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso.
Il Catechismo della Chiesa cattolica richiama le tre condizioni, citando al n. 1859, la materia grave, l’avvertenza e il consenso. Questo approccio è ancora valido. Procurare la propria morte è sicuramente un grave atto. La Chiesa, nella sua storia, ha da sempre proposto la difesa della vita: recentemente non solo umana, ma anche ambientale. Una religiosità che crede nella tutela della terra e dei suoi abitanti: «Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi». Più discutibile l’avvertenza. Viviano una cultura la quale pone al primo piano le proprie convinzioni. E’ cultura corrente che sia il soggetto a definire le scelte, a prescindere dalle leggi civili e religiose. Da qui non avere coscienza di volere un male, ma di esercitare un diritto. Il consenso deve essere libero e personale. Si sovrappongono spesso e si confondono desideri e diritti, creando verità personali.
A fronte di condizioni di salute precaria è facile invocare la morte, soprattutto in presenza di due circostanze. La prima è il dolore fisico lancinante e irrisolvibile. La seconda è la solitudine senza prospettive di vita dignitosa. A fronte di malattie progressive che tolgono futuro, si crea il buio che invoca la morte, come liberazione dal dolore. Allargando alla dimensione pubblica è dovere dello Stato – secondo la prospettiva cristiana – non permettere il suicidio assistito. Ma lo Stato rappresenta culture diverse: si definisce “laico” che, alla fin fine, significa non appellare ad un’etica comune, ma a quanto esprime la maggioranza dei suoi abitanti.
Un grave, irrisolvibile problema, consiste nel non poter entrare nelle coscienze delle persone, ma a doversi limitare a ciò che è “pubblico”; in altre parole a poter legiferare su atti e processi posti esternamente. Da qui le difficoltà di una legge che definisca condizioni di proporre il suicidio assistito. In cinquanta anni di vita con persone con disabilità gravi e gravissime, nessuno mi ha mai chiesto di morire: la vita è più forte della morte. L’impegno è creare condizioni che possano far desiderare di vivere, nonostante le avversità della natura.