Salute mentale. “La si tratti come una malattia, non come una colpa”

In occasione della Giornata mondiale della salute mentale (10 ottobre) si accendono i riflettori su una condizione che colpisce quasi 1 italiano su 3 ma di cui si parla poco. Un momento per ribadire da un lato quanto sia importante lottare contro lo stigma e i pregiudizi verso i pazienti che soffrono di disturbi mentali, soprattutto in un periodo caratterizzato dall’emergenza Covid-19 che ha messo in luce più che mai come queste persone si siano spesso trovate escluse dalla partecipazione alla vita sociale, dall’altro per avviare un dibattito sui problemi che affliggono il sistema italiano dei servizi per la salute mentale.

Dalla rete territoriale, alla distribuzione delle risorse finanziarie fino alla disponibilità di personale. Criticità che interessano da vicino le Comunità San Girolamo e San Claudio, le due realtà legate alla Comunità di Capodarco di Fermo che accolgono in regime residenziale persone con disagio psichico. La prima è nata nel 1999 nell’omonimo quartiere fermano con la presa in carico degli ultimi pazienti manicomiali sul territorio e oggi accoglie 40 persone, mentre la Comunità San Claudio è situata nel comune di Corridonia (Mc) e attraverso attività riabilitative e relazionali si fa carico di circa una ventina di persone con problematiche psichiatriche. A tracciare un bilancio su cosa significhi oggi essere in prima linea nel gestire certe situazioni sono Eugenio Scarabelli, psicoterapeuta e coordinatore dell’area clinico-riabilitativa della Comunità San Girolamo, e Simona Gazzoli, responsabile della medesima struttura.

“A più di 40 anni dalla riforma 180 (la cosiddetta Legge Basaglia) a mio avviso ci sono due vuoti che ancora devono essere colmati – sottolinea Scarabelli -. Il primo è culturale, la malattia mentale oggi risente di quello che storicamente viene chiamato stigma ed ha un gap rispetto ad altre patologie che non la fa apparire per quello che realmente è, appunto una malattia, ma piuttosto una colpa. Questo aspetto è talmente radicato sia nell’immaginario collettivo che nel vissuto delle persone che lo ritroviamo poi riflesso anche negli stessi pazienti, i quali hanno oggi l’idea che la loro condizione sia una sorta di responsabilità soggettiva. Tant’è che una delle frasi ricorrenti in comunità quando si parla della possibilità di ridurre le terapie è ‘ma io dopo mi comporto bene lo stesso!’, come se la manifestazione della malattia fosse dipendente dalla volontà del paziente. Il secondo aspetto sul quale la riforma dovrebbe essere completata è quello relativo all’offerta dei servizi territoriali, in zone come la nostra ne risentiamo ancora di più. È raro che in Italia siano sufficientemente sviluppate delle risposte a livello territoriale che permettano alle persone di non ricorrere prevalentemente ai reparti di diagnosi e cura e di non essere ospitate in strutture residenziali: oggi un paziente con disagio psichico va bene finché ‘sta tranquillo’ e può circolare liberamente e non appena compie qualche casino subentra il ricovero in reparto. Insomma non c’è ancora l’idea che dovremmo rispondere alla malattia mentale trattandola nelle quotidianità in maniera più completa e a vari livelli, come invece avviene per altri tipo di disabilità come quella fisica. Penso ad interventi più capillari e parcellizati sui territori che diano alle persone la possibilità di sapere come riempire la loro vita con proposte che siano alternative all’istituzionalizzazione della struttura”.

“Sulla salute mentale oggi si investe ancora poco – è il parere di Simona Gazzoli, responsabile della Comunità San Girolamo -, non solo in termini di risorse economiche. Alcuni servizi sono ancora scarsamente efficienti, basti pensare alla rete di sostegno alle famiglie e alle persone che ha dei vuoti evidenti. Questo emerge anche dalle storie dei ragazzi che vivono in comunità, attraverso le quali vediamo che ciò che manca è proprio una rete familiare e sociale di sostegno e aiuto alla personaIl disagio mentale ormai interessa sempre di più giovani e adolescenti, bisognerebbe di più investire in prevenzione e informazione in modo che dalla comparsa dei primi sintomi non si arrivi all’insorgere della malattia psichiatrica. Quindi penso a campagne informative nelle scuole e nei luoghi di lavoro perché i disagi psichici sono tanti e li tocchiamo con mano in tutti gli ambienti, è lì che occorre essere presenti e intervenire tempestivamente perché dalle storie che sentiamo sono le stesse famiglie a sentirsi abbandonate e a vivere in solitudine il percorso legato alla malattia. I servizi dovrebbero essere potenziati e adeguati alle necessità dei pazienti la cui tipologia muta nel corso degli anni, noi siamo passati ad ospitare ex manicomiali nella fase iniziale per poi accogliere giovani adulti che entravano in comunità ma che non provenivano da istituzioni sanitarie, fino ad oggi in cui gli ultimi ingressi sono di ragazzi giovanissimi di 19 o 20 anni. Target che richiedono interventi e percorsi differenziati”.

Con un momento storico così particolare legato alla pandemia parlare di salute mentale è quindi quanto mai doveroso e urgente, per sottolineare gli effetti che il lockdown e la pandemia hanno avuto sulla psiche degli italiani, per chiarire l’importanza della diagnosi precoce e del trattamento, per ribadire la necessità di combattere lo stigma che ancora circonda i pazienti.