Il virus come una cometa: quando finirà, voglio esserci per continuare ad agire

“Più che il nome di un virus, oggi Covid 19 mi fa pensare ad una cometa. Una stella che ha illuminato, indicato e forgiato quei comportamenti mai espressi o soffocati dal tran tran quotidiano”. Raffaella De Amicis, educatrice della Comunità educativa per minori Sant’Anna di Fermo, prova a raccontarci quanto ha sperimentato in questo periodo di emergenza. Dall’angoscia di andare al lavoro al riscoprirsi, tanto da definire il virus “come una cometa”

“Fino a qualche mese fa il turno di un educatore era scandito dagli impegni elencati in agenda, dalle continue richieste di attenzione degli ospiti e dagli imprevisti che immancabilmente aspettavano il momento meno opportuno – spiega -. ‘ Ora non ho tempo, vediamo domani, si lo faremo’, potrei elencarne numerose di frasi fatte verso gli ospiti e i colleghi. Gli educatori, che volenterosi di portare al termine la giornata con il massimo impegno possibile, reagiscono ai tempi dettati dalle incombenze”.

“Poi – continua l’educatrice -, arriva lui, Covid 19, un microrganismo infettivo, invisibile, silenzioso, parassita delle nostre cellule e… uccide. Soprattutto gli indifesi, ma anche vite integre e in fiore. La paura sale e la tensione aumenta”. Qualsiasi canale multimediale esordisce con la parola coronavirus ed elenca il numero dei contagi e la classifica dei morti per regione e per nazione. Egoisticamente il primo pensiero è quello preservare la propria vita perché gli altri sono dei potenziali pericoli. Non vorresti più recarti in comunità. Ti guardi intorno e sulla testa di ognuno c’è una x. ‘Sarà infettivo?’ ti chiedi, e nel dubbio stai lontano, ti lavi e guardi bene se ha tosse o raffreddore”.

“I giorni passano e inizi a renderti conto che anche tu sei un’incognita per gli altri, un pericolo per i nostri bambini chiusi in comunità, poco consapevoli della precarietà che c’è fuori nel mondo. Allora ti senti un forte senso di responsabilità e alzi ulteriormente la guardia. I giorni passano, e quando senti che i comportamenti precauzionali iniziano a essere parte integrante della tua vita, la tensione inizia a scendere e la voglia di sentirsi vivi e attivi mette da parte la paura. Da qui si comincia a dare un senso a quello che sta accadendo. Da qui il Covid 19 inizia a portare luce a quelle giornate buie e ogni giorno questo significante acquisisce un significato nuovo”.

“Per l’educatore il lavoro non si è mai fermato, ma ti rendi conto che il Covid 19 ha fermato lui, sul posto. Sull’agenda non ci sono più trascritti gli impegni con l’esterno, ci sono video-lezioni, telefonate protette, ma la frenesia è scesa, non si è più gestiti. Ci si guarda intorno e ci sono loro, ma finalmente ci sono anche io, e sono con loro. Le giornate sono lunghe, ma giochi, ascolti, organizzi, inventi, ci si sperimenta con i nostri bambini, con le nostre ragazze, con le nostre mamme e in queste giornate agisci. Sei tu che devi metterti in gioco per riempire queste ore di isolamento e sei tu che devi stare per scoprire che anche loro hanno capacità e qualcosa da insegnarti. Sei tu che insegni a mettere da parte l’orgoglio e a vivere con più umiltà”.

Conclude così la riflessione: “Solo ‘après coup’ riesco a dare voce e senso alla disgrazia che questa pandemia ci ha portato. Se la vita ci porta verso la morte, la morte a sua volta riaccende la forza di vivere, di farcela con i valori essenziali della vita. ‘Après coup’ il coronavirus è diventata un’opportunità per capire ciò che veramente conta, per ottimizzare i tempi e lasciare spazio a loro che apprendono da noi. Quando tutto questo finirà voglio esserci, non per tornare a reagire ma per continuare ad agire!”