Fare Squadra. Per una visione collettiva del lavoro – Articolo tratto da “Lettera da CAPODARCO N.0”

di Claudio Fausti

– “Fare squadra” significa agire con lo spirito di un gruppo. Una definizione essenziale ma densa di significato, soprattutto se applicata al contesto sanitario e socio-assistenziale. In questi ambiti, dove la qualità delle relazioni può incidere direttamente sulla qualità della vita delle persone, la collaborazione tra operatori, e tra operatori e persone accolte, non è un semplice valore aggiunto, ma una condizione indispensabile.

Nel lavoro di cura, “fare squadra” non implica solo lavorare fianco a fianco, bensì condividere una prospettiva, un linguaggio operativo, una visione comune degli obiettivi. Significa costruire relazioni fondate sulla fiducia, sul riconoscimento reciproco delle competenze e sul rispetto dei ruoli e quando ciò avviene, la motivazione individuale si rafforza e si trasforma in energia collettiva, capace di affrontare le sfide quotidiane con maggiore efficacia.

In una équipe socio-sanitaria convivono figure diverse: medici, infermieri, OSS, educatori, assistenti sociali, ciascuno con il proprio bagaglio professionale, ma anche con la propria storia personale e il proprio stile relazionale. Integrare queste diversità in una logica di gruppo richiede tempo, comunicazione aperta ed un attento coordinamento, tuttavia quando si riesce a costruire una cultura condivisa del lavoro, i benefici si estendono in modo trasversale: la persona accolta riceve un’assistenza “sartoriale”, più coerente e centrata sui propri bisogni, mentre i lavoratori vivono un ambiente più stimolante, meno frammentato, più sostenibile anche dal punto di vista emotivo. Un aspetto spesso sottovalutato è la relazione umana tra gli operatori e le persone con disabilità psichica e/o motoria, ed anche in questo caso, la collaborazione si declina come co-costruzione. Non solo destinatari di interventi, ma parti attive nel definire obiettivi e strategie.

“Fare squadra” significa anche riconoscere e valorizzare le risorse di ognuno, promuovendo percorsi di autonomia e partecipazione. Si tratta di un cambio di prospettiva: da un modello assistenzialista a un modello partecipativo, basato sulla consapevolezza di sé e sull’autodeterminazione. La motivazione, elemento chiave del benessere lavorativo, non nasce dal caso, ma si alimenta in contesti dove l’individuo si sente ascoltato, riconosciuto, valorizzato. Diversi studi nell’ambito della psicologia del lavoro e delle organizzazioni, confermano che il senso di appartenenza a un gruppo motivato e coeso aumenta l’engagement e riduce il rischio di burnout.

In altre parole, lavorare bene insieme, fa bene a tutti. Perché ciò accada, servono leadership capaci di promuovere il dialogo, spazi di confronto strutturati e una formazione continua che non trascuri le competenze relazionali. La qualità del lavoro sociale e sanitario non si misura solo in termini di efficienza o di risultati clinici, ma anche – e forse, soprattutto – nella capacità di creare relazioni significative, capaci di generare benessere e fiducia.

In conclusione, quando parliamo di servizi alla persona, “fare squadra” significa abbracciare una visione collettiva del lavoro, creando un mondo che permette di prendersi cura non solo degli altri, ma anche di sé stessi, attraverso l’altro.

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Argomenti: Sanità