Di Matteo Ferroni
– Vi sono Comunità socio-educative la cui peculiarità consiste nell’accoglienza di minori accompagnati dalle proprie madri, qualora il Tribunale ne predisponga la possibilità. In tal caso le circostanze in cui un’équipe educativa si trova ad operare sono le più disparate, nella misura in cui ogni ospite porta con sé un background di vita che necessariamente va ad intersecarsi con una varietà di vissuti nei quali è possibile trovare differenze sostanziali ma anche analogie molto significative.
La convivenza tra questi nuclei si protrae per periodi di tempo abbastanza consistenti che determinano inevitabilmente una rimodulazione di tutto ciò che rappresenta il bagaglio culturale di ognuno. Una commistione di nazionalità che impone agli operatori coinvolti di ridefinirsi sulla base delle persone che vengono accolte.
L’esperienza maturata negli anni, delinea in effetti un presupposto essenziale senza il quale è pressoché impossibile generare quell’interazione finalizzata alla risoluzione delle criticità che si è chiamati ad assolvere. Ci si riferisce al concetto secondo cui ogni relazione d’aiuto si costituisce sulla base del rispetto della persona accolta, in merito a tutto ciò che concerne la sua visione del mondo, il suo sistema valoriale e i suoi bisogni. Partendo da questo approccio ci si pone nella condizione di accogliere e comprendere l’altro, in uno scambio “inter-culturale” la cui essenza risiede nell’accettazione reciproca. Lo scambio tra due identità che si danno vicendevolmente un senso. Questa impostazione consente paradossalmente di ribaltare i ruoli, in una dimensione in cui l’ospite “accoglie” per l’appunto colui che ospita. Questa apertura avviene in modo naturale a condizione che le persone che vengono inserite in comunità si sentano legittimate e rispettate in riferimento alle loro caratteristiche. Gli educatori, chiamati alla costruzione di queste complesse relazioni, trovano proprio nella propria identità culturale l’ostacolo prevalente al riconoscimento dell’altro.
La capacità di distaccarsi almeno in parte dalle convinzioni personali rappresenta una caratteristica di rilievo nell’accoglienza di persone appartenenti ad etnie diverse. Prendere distanza da sé stessi unitamente alla capacità di relativizzare i propri punti di vista permette di non cadere nel pregiudizio ed andare al di là degli stereotipi. Avere dunque la capacità di andare oltre le proprie certezze e comprendere che le stesse perdono di significato se calate in altri contesti culturali. Mostrare curiosità riguardo aspetti che percepiamo distanti dal nostro modo di vedere le cose, comunicare e chiedere chiarimenti in merito a comportamenti che si percepiscono come anomali.
E’ necessario adottare delle modalità che permettano di entrare gradualmente nella struttura dell’altro evitando interpretazioni precoci. Ad esempio, durante un colloquio abbastanza animato con una madre di origini nigeriane, ricordo la sensazione di avversione nel constatare che mentre ero intento a darle spiegazioni riguardo un provvedimento inviatoci dal Tribunale, la stessa fissava il soffitto evitando in modo intenzionale il mio sguardo. Ho subito percepito tale atteggiamento come una mancanza di rispetto, chiedendole di guardarmi negli occhi. Mi ha conseguentemente spiegato di come nel suo paese, fissare una persona più grande di età, fosse invece un segno di irriverenza.
Ho sperimentato dunque il “paradosso culturale” secondo il quale ciò che percepivo come irrispettoso rappresentasse per una data cultura il significato opposto. Questo genere di circostanze si possono rivelare in tante sfaccettature legate all’interazione con persone di etnie diverse. Come équipe educativa si è chiamati ad osservare e in qualche modo a valutare, la genitorialità messa in atto dalle donne che vengono accolte.
Tale analisi non può prescindere dalle connotazioni culturali di ciascuna madre. Le modalità di accudimento di una donna africana possono difatti apparire bizzarre se calate nel nostro contesto. Viceversa, dal suo punto di vista, le nostre indicazioni riguardo la gestione di un bambino di pochi mesi, possono sembrare del tutto fuori luogo. Unire due orientamenti così distanti tra loro, richiede una grande capacità di negoziazione e mediazione che permetta di valorizzare quotidianamente i punti di forza di entrambi, affinché gli attori coinvolti nella relazione d’aiuto (il professionista e l’accolto) possano riconoscersi in uno scambio virtuoso che riconosca il valore del punto di vista dell’altro.
E’ chiaro che il quadro normativo di riferimento, caratterizzato fortemente da elementi relativi alla nostra cultura, attraverso il quale si effettuano delle considerazioni riguardo ad esempio alle competenze genitoriali di una madre, limita di molto la comprensione di prassi educative particolarmente distanti dalle nostre. Ciò condiziona in modo significativo il giudizio in merito ad usanze percepite da subito come sbagliate ma che non necessariamente lo sono.
Sembra pertanto necessario, a mio parere, una rimodulazione del quadro giuridico che tenga maggiormente in considerazione le connotazioni culturali delle persone che si accolgono.
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