Droghe. Sollini: “Rivedere la legge 309 è dovere morale”

Riccardo Sollini

Nei giorni scorsi la commissione Giustizia della Camera ha dato il via libera al testo base sulla depenalizzazione della coltivazione di cannabis in casa. Il testo prevede, tra l’altro, una diminuzione delle sanzioni per i fatti di lieve entità e l’inasprimento delle pene (da 6 a 10 anni) per i reati connessi a traffico, spaccio e detenzione ai fini di spaccio della cannabis. Si tratta di un passaggio che fa parte dell’iter delle proposte di legge per modificare l’articolo 73 del Testo Unico sulla droga (DPR 309/90), che regola la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Tema delicato che ha dato il via a un ampio dibattito tra le forze politiche, sul quale interviene oggi il direttore della Comunità di Capodarco di Fermo, Riccardo Sollini, già responsabile della comunità terapeutica L’Arcobaleno.  “Non si tratta di legalizzazione, su cui sarei completamente contrario, – spiega – ma di depenalizzazione. Un tema del tutto differente e che si avvicina molto di più alla regolamentazione, che mi trova, invece, totalmente d’accordo”.

Droghe pesanti e droghe leggere

“Va sgombrato innanzitutto il campo: non esistono droghe pesanti e droghe leggere, esiste l’uso pesante e leggero di sostanze, concetto completamente differente. – sottolinea Sollini – Se ci si concentra sulla sostanza, su quelle che fanno più paura e quelle che lo fanno meno, ci si affida al preconcetto, dovuto ad anni di narrazione sul tema, che porta a condannare alcuni utilizzatori e a salvarne altri. L’esempio più chiaro potrebbe essere: ‘non usare cocaina, eroina o cannabis, piuttosto utilizza vino’; ossia ‘non usare sostanze psicotrope illegali, ma usa quelle legali, vedi alcol’. Concetto che possiamo estremizzare dicendo che sarebbe errato l’utilizzo cannabis, ma va bene il misuso di benzodiazepine o altri farmaci”.

Per il direttore della Comunità quindi “il punto non è la sostanza, ma è cosa implica quella sostanza per te”. “Se non bevo quattro bicchieri di vino non riesco ad uscire di casa, se ogni giorno non faccio un aperitivo con almeno 4 cocktail la giornata è andata storta. Se ogni giorno non ‘mi faccio 4 canne’ non sono sereno, oppure non dormo. – spiega – Come dire: possiamo togliere o cambiare sostanza, ma permane la dipendenza, che è legata alla funzionalità che io continuo a mantenere. Le dipendenze non sono tutte uguali, è evidente, sia per connotazione sociale che per condanna, sia per impatto chimico sull’organismo che per identità di chi usa. Ma chi chiede aiuto, chi accede al sistema di cura, lo fa sempre per motivazioni legati alla perdita di uno stato sociale, un problema sanitario, una questione giudiziaria. Questo argomento penso sia centrale per cercare di capire come il sistema di cura e dei servizi arrivi in una fase successiva e tardiva”.

Carcere, “meglio ripensare l’architettura dei servizi”

Sollini affronta la questione dipendenze dal punto di vista delle pene. “È evidente – afferma – che la depenalizzazione ha un valore importante per quanto riguarda il sovraffollamento di carceri, per persone che vengono arrestate e vedono rovinarsi la vita per motivi legati al possesso di sostanze stupefacenti. Il discorso di uso personale esiste già nel nostro ordinamento, anche se va rimessa mano alle tabelle per la differenziazione di sostanze e del loro quantitativo. È evidente che nel momento in cui il 25% della popolazione carceraria è composta da persone che sono lì per motivi legati a sostanze stupefacenti, la domanda è se ha senso che persone con problemi di dipendenza siano in carcere. E se ha senso che ci siano, capire almeno per quale motivo e quale quantitativo”. “Tutti discorsi – prosegue Sollini – che diventano complessi da portare avanti, ma che tuttavia rappresentano un punto centrale su cui concentrarsi, soprattutto per quanto riguarda il tema della cura delle dipendenze patologiche. Non bisogna essere un tecnico per capire che il carcere, come è pensato e strutturato in Italia, non ha sicuramente un valore educativo, di correzione e tanto meno sanitario, ma che bisogna guardare ad altre strade che comprendono la revisione dell’architettura dei servizi per le dipendenze”.

Servizi, guardare alle esperienze spontanee

La maggiore criticità dei sistemi di cura in Italia, secondo il direttore di Capodarco, è che nel corso degli anni “non si sono saputi trasformare rispetto alla nuova prospettiva evolutiva delle sostanze e delle dipendenze”. “Questi modelli di cura nel nostro paese hanno rappresentato da sempre un elemento di eccellenza nel panorama europeo e mondiale, perlomeno fino a qualche anno fa. Il sistema costruito con attenzione e cognizione di causa per rispondere alle emergenze degli anni ‘80 e ‘90 oggi va rivisto; è uno sforzo necessario che può partire da esperienze differenti in giro per l’Italia, nate da iniziative spesso spontanee di direttori di servizio che hanno provato a riorganizzare il proprio sistema per riuscire a rispondere a nuovi bisogni. Evidente che sono segnali di necessità di cambiamento da un lato, ma anche di episodi legati ad iniziative personali di persone illuminate che con coraggio hanno scelto di trasformare il proprio sistema”.

“La struttura dei servizi rappresenta il passaggio fondamentale su cui concentrarsi – spiega ancora Sollini – Il tema non sarà mai quello di legalizzare o non legalizzare, il tema vero è come decidiamo di affrontare la questione dell’uso di sostanze e dipendenze in una società mutata, su cui il lockdown ha dato un’accelerazione enorme rispetto a fragilità umane e a necessita di riempire vuoti di vita e di performance. Aumentano le richieste di aiuto per suicidi, soprattutto tra i giovani, accrescono le diagnosi di depressione, tutti elementi che già erano stati predetti anche dall’Oms prima di tutta la pandemia covid. Serve un’architettura di servizi capace di intercettare bisogni, costruita per rispondere ai bisogni individuali e non che risponda a un fatto già accertato e che lavora sul post. È evidente che occorra anche pensare al dopo ma laddove il sistema non è capace di generare risposte differenti di prospettiva, rimane un pronto soccorso che cerca di tappare falle in un tubo”.

Rivedere la legge 309/90, “un dovere morale”

Per Sollini è urgente rimettere mano alle legge 309/90, testo che “per quanto illuminato, ha oltre 30 anni”. “Rivederlo – dice – rappresenta un dovere morale del legislatore e di tutti coloro che si occupano di questi mondi”. “Un sistema come quello delle sostanze, della prevenzione e della cura è intrecciato profondamente con i mutamenti della nostra società, non solo italiana ma mondiale. Pensare che la norma possa rimanere ferma è del tutto impensabile, come è altrettanto assurdo che a smuovere la riflessione sia il dibattito se legalizzare o no, come fa gran parte della politica, mistificando di fatto il testo stesso del ddl in discussione che parla di depenalizzazione”.

“Al di là della cannabis, l’utilizzo delle sostanze illegali rimane stabile da oltre 10 anni. – spiega il direttore di Capodarco –  L’utilizzo o meno di una sostanza non è di certo legato alla sua legalità o meno. Su questo le percentuali di aumento del consumo di cannabis sono evidenti, ma l’uso o non uso passa per il sistema educativo, passa per principi, scelte personali che ognuno fa.  Io non credo di non aver utilizzato eroina o cocaina perché illegali, ma perché nel mio complesso di pensieri non ne facevano parte. Come diceva don Andrea Gallo, ‘possiamo depenalizzare tutte le sostanze e io continuerò ad essere davanti alle scuole per spiegare che c’è un’alternativa all’uso di sostanze’. Proporre alternative, esperienze, scoprire mondi e possibilità che ognuno di noi può avere e ricercare, purché messo nella condizione di scoprirsi e di scoprirli. Un’alternativa di fronte al mondo che ci viene narrato in cui la prospettiva diventa stretta e chiusa, quando invece, anche nella pandemia possiamo guardare oltre”.