Alle 10,30 del mattino il sole splende forte sulla piana di Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro. È una giornata speciale perché alla “casa famiglia dopo di noi” della Comunità Progetto Sud si festeggia il compleanno di Maria Teresa. Per celebrare i suoi sessantanove anni sono già pronti i cornetti salati e l’impasto delle pizze da mettere in forno. Partecipano ai preparativi sia le operatrici, sia alcune persone ospiti di questo appartamento inaugurato dieci anni fa per accompagnare e assistere in via permanente o transitoria donne e uomini con disabilità grave privi di sostegno famigliare tracciando percorsi di autonomia e condivisione.
Dal manicomio alle feste tutte per lei
Per Maria Teresa è un compleanno fatto di sorrisi, della voglia di conoscere e parlare al cronista di turno che le si avvicina. Una vivacità scandita su una sedia a rotelle che si fa largo nonostante la disabilità fisica e psichica. Una vita, la sua, oggi ben diversa da quella vissuta all’istituto “Papa Giovanni XXIII” di Serra d’Aiello, nel Cosentino, finito nel mirino della magistratura per problemi di malagestione da cui è dipeso lo sgombero nel 2009 e descritto da media nazionali e locali come un vero e proprio manicomio. Un luogo dove a Maria Teresa sarebbero toccate docce fredde e anche punizioni per la sua abitudine a mettere le mani in bocca, racconta Elvira Benincasa, coordinatrice della casa che descrive il lavoro svolto a Lamezia per sviluppare in questa donna la fiducia in se stessa e negli altri. Un lavoro servito tra l’altro a liberarla dalla coperta da cui non si staccava mai, neanche nei momenti di caldo, e dalla dipendenza dalla bambola “che poi – ricorda Benincasa – ha regalato a mia figlia per il suo compleanno”.
Dalla violenza alla gioia delle vacanze
Anche Barbara (nome di fantasia) era finita in quell’istituto dopo le tante violenze dell’ex marito prima e dell’ex convivente poi. Un passato in parte cancellato dal sorriso che questa donna mostra quando ricorda le vacanze estive trascorse grazie all’Unitalsi con le sue compagne di viaggio, Maria Teresa e Angelina. Un approccio espansivo che viene fuori quando orgogliosa svela gli anni dei suoi coinquilini. “Perché lei è la contabile dei compleanni”, dice Benincasa sottolineando l’attenzione per le date di nascita di ogni persona ospite della casa.
La palestra dopo il silenzio indotto dai farmaci
Angelina, invece, è appena arrivata dalla palestra che frequenta a Nicastro, uno dei tre centri abitati di Lamezia, e che raggiunge con il pulmino o a piedi accompagnata da qualcuno dello staff. In palestra Angelina si diverte: così dice lei mostrando un entusiasmo che nulla ha a che fare con un passato prima in una struttura di Bologna e poi in una casa di cura in Calabria. Un passato fatto anche di “silenzio”. Quello indotto da una miscela di farmaci psichiatrici. Tanti farmaci. Con il risultato – spiega ancora la coordinatrice della casa lametina – che “c’è voluto un anno per poterla disintossicare”.
Il mondo fuori non è più un deserto
Oltre a queste vite c’è la storia di Mario, finito all’età di trentotto anni in una casa di riposo abitata da persone anziane. E c’è Anna Rita, elegante signora che si lamenta pensando a quel posto nel Catanzarese dove si trovava prima di arrivare a Lamezia: “Fuori c’erano solo un bar, un tabacchino e un supermercato. Nient’altro”, osserva descrivendo una sorta di cattedrale nel deserto per lei causa di solitudine.
Quando il “dopo di noi” supera i ghetti
Insomma: il “dopo di noi” in Calabria vuol dire anche superare logiche segreganti e visioni distorte del concetto di cura. Non a caso, Elvira Benincasa parte dalle storie per spiegare che nella “casa famiglia” in via dei Bizantini a Lamezia le cose vanno diversamente: “Qui le persone vanno in palestra, vanno a fare la spesa, scelgono lo shampoo e il loro parrucchiere preferito, c’è chi s’impegna in agricoltura” coi progetti di inclusione della cooperativa Le Agricole della rete Progetto Sud. Una serie di esempi per rappresentare un metodo: “Lavoriamo non per le persone ma con le persone, coinvolgendo le famiglie e modulando i servizi in base ai bisogni e ai moti emozionali di ognuno di loro. Con progetti educativi individuali che si intrecciano coi progetti di vita dei singoli”.
La forza della comunità per superare gli ostacoli
Un’esperienza, quella del “dopo di noi” alla Progetto Sud, partita nel 2008 con la ricognizione dei bisogni dei territori. “Un’affannosa ricerca”, ricorda Benincasa. Una mappatura nei diversi Comuni ascoltando pure i parroci dei paesi sprovvisti di servizi sociali. “Un lavoro faticoso in un contesto all’inizio abbastanza ostile”, con le “minacce” dopo l’ottenimento dell’immobile confiscato a una cosca locale. E “con attacchi arrivati non solo dalle cosche” ma anche da altri fronti. “Perché qui, dove ha anche sede una comunità per minori stranieri non accompagnati, lanciamo messaggi di inclusione che possono dare fastidio”. Ostacoli fronteggiati “lavorando con la consapevolezza di avere un gruppo alle nostre spalle, perché la Comunità Progetto Sud non ci lascia soli”. Inoltre “aiutano i rapporti costruiti con il territorio coinvolgendo ad esempio i negozi del posto” per le esigenze delle persone della casa.
Risultati concreti prima e oltre la legge 112
In pratica, attività che concretizzano il “dopo di noi” prima e al di là della legge 112 del 2016 che in Calabria fatica ad arrivare alle fasi pienamente attuative. Una legge che in regione – sostiene Benincasa – è penalizzata da “limiti politico-istituzionali e culturali” che sommati ai “ritardi nel pagamento delle rette” finiscono per “frenare gli obiettivi della legge stessa”, pensata per favorire esperienze abitative e progetti di autonomia e inclusione.
Resta poi il problema delle liste d’attesa che “sono lunghe”. Un aspetto in parte risolvibile se – come dice sempre Benincasa – si riducono “i ricoveri spesso impropri e se si spostano risorse dal versante socio-sanitario a quello socio-assistenziale favorendo esperienze in appartamento come queste”. Una soluzione “che alleggerirebbe i costi della sanità calabrese”.
Ricordando Turuzzo
Infine, la mente di Elvira Benincasa torna alle persone, alle storie di vita. Un pensiero per Maria, rientrata nella città d’origine dopo un percorso “per imparare a rispettare e a rispettarsi” culminato con il ricongiungimento famigliare. E poi c’è Turuzzo. La donna mostra le foto dell’anziano libero di passeggiare nel centro storico di Nicastro. “Turuzzo – racconta – è morto in questa casa, nel suo letto, soddisfatto per quel tiramisù mangiato a pranzo; è morto con la sua mano stretta nella mia. Il Dopo di noi è anche il morire così”.