Disabili gravi, “rischio custodia a vita in una specie di corsia ospedaliera”

Assemblea nazionale delle Comunità di Capodarco © Riccardo Sollini

Assemblea nazionale delle Comunità di Capodarco © Riccardo Sollini

CAPODARCO – Per i disabili gravi e gravissimi, “si rischia di tornare allo schema assistenziale degli anni ’70: quello che aveva come base la semplice custodia”. È l’esplicito allarme lanciato oggi dalle 14 Comunità di Capodarco operanti in Italia, durante l’assemblea in corso fino a domani alle 13 presso la sede di Fermo in cui la comunità fu fondata nel 1966.

La denuncia, insieme all’appello a reagire con azioni concrete, è contenuta nella relazione di apertura del presidente don Vinicio Albanesi e arriva al termine di una analisi in tre punti delle difficoltà vissute dalle comunità stesse, tutte impegnate prevalentemente, spesso da decenni, proprio nell’accoglienza di persone disabili. La prima difficoltà, afferma Albanesi, “è di ordine economico: le regioni hanno operato tagli lineari su ogni nostro tipo di intervento, pur costituendo il nostro comparto appena il 2-3% del fatturato di competenza. Ciò ha indotto vere e proprie sofferenze fino ad arrivare ad indebitamenti severi e a non poter garantire tempestivamente nemmeno i salari pattuiti”. Un quadro che viene del resto confermato dai dati degli ultimi anni, che indicano la spesa assistenziale dei comuni (che garantiscono molti servizi accessori alla vera e propria cura) in calo già dal 2011, e quella delle regioni per l’area socio-sanitaria (gestita dalle Asl) seguire la stessa tendenza.

“La seconda difficoltà – prosegue Albanesi – è la tendenza alla ‘specializzazione’ di ogni intervento da parte delle Regioni. Tutto è stato fagocitato da standard presuntivamente moderni e scientifici, con il rischio che il mondo dell’assistenza diventi solo occasione di occupazione. La gravità della situazione si misura nelle delibere regionali che stabiliscono fabbisogni, schemi assistenziali, addetti e … la quantizzazione dei minuti di assistenza”.

Arriva qui il nucleo della denuncia di Capodarco. “Lo schema che deriva dall’applicazione di quegli standard – dice infatti il presidente – è quello una ‘corsia di custodia’. Ma mentre in ospedale si è ricoverati per una malattia da cui guarire, nella corsia assistenziale si dovrebbe vivere tutta la vita… e che vita!”.

Albanesi spiega poi che cosa, nella pratica, viene generato da quello schema: “Semplificando molto: moduli di venti posti letto, tre operatori a turno, catering per il cibo, una stanza per radunare per tutto il giorno le persone presenti, chiuse a chiave, eccetto permessi concessi a eventuali parenti. Nessuna uscita, nessun diversivo, nessun contatto con la vita reale, non essendo previsto dalle convenzioni. Un passaggio a turno, in  mattinata, di psicologo, di educatore, di musicista, di maestro d’arte e il gioco è fatto”.

Un quadro tanto più fosco se si pensa che lo schema riguarderà in futuro persone disabili sempre più gravi e non autosufficienti, giovani o anziane. Esattamente il contrario, insomma, del modello di Capodarco e di altre realtà italiane che negli ultimi decenni hanno gestito strutture quanto più possibile simili a case, dove i disabili potessero dispiegare appieno le proprie capacità e aspirazioni; un modello, aggiunge Albanesi, “attento ai sogni delle persone, nel rispetto del lavoro e dei diritti di tutti”.

Ma c’è a questo proposito una terza difficoltà, rincara don Albanesi: è la “distinzione ossessiva tra sociale e sanitario, negando anche gli interventi sanitari pure necessari. La distanza tra i bisogni affettivi e sociali di chi è accolto e i diritti di chi accudisce si sta allargando, fino a rendere ogni azione assistenziale anaffettiva e funzionale”. Dopo anni di discussioni sulla necessità dell’integrazione tra assistenza e sanità, si assiste insomma al “trionfo vero e proprio del modello sanitario”.

La relazione di Albanesi segnala quindi il clima di solitudine vissuto da realtà anche rilevanti come Capodarco: “Un clima difficile e teso: ci troviamo stretti tra l’indifferenza per le politiche di integrazione, il restringimento di discorsi solidaristici e l’ansia di ricerca di risorse necessarie per osservare la legge. Questo è l’habitat all’interno del quale siamo costretti a operare”.

Difficile far emergere la situazione appena descritta, rileva Albanesi, quando “una raffinata comunicazione della politica sociale dichiara pubblicamente di non aver ridotto i servizi. In realtà ha spostato sulle famiglie una serie di competenze (prima economiche e poi sociali) che hanno sgravato l’intervento pubblico. La compartecipazione (la quota a carico delle famiglie che negli ultimi anni si è fatta sempre più pesante, ndr), la non previsione di strumenti di socializzazione, la rigidità delle funzioni, la burocratizzazione di ogni azione sociale (dalla sicurezza, al cibo, dalle funzioni sanitarie a quelle assistenziali) rendono la risposta sociale incerta, complessa e minimista”. Il rischio, afferma appunto Albanesi “è il ritorno a uno schema che sembrava finalmente smantellato, alla cui base vigeva la politica di semplice custodia: al soggetto si garantiva la semplice sopravvivenza in strutture anonime, disumane e coercitive”.

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