Dalla paura all’abbandono: pensieri al tempo del coronavirus

Un pensiero a chi abita i reparti di terapia intensiva dove si combatte contro la morte. La condizione di dipendere da mani altrui, lo strazio di non avere i propri cari accanto. Pensando all’anima, oltre che alla sopravvivenza

di Vinicio Albanesi

Mentre scrivo (18 marzo 2020, ore 21,50) i dati ufficiali per l’Italia dicono che i morti per coronavirus sono 2.978; i contagiati 28.710; in terapia intensiva 2.257; i guariti 4.025.

Il pensiero va ai reparti esistenti (e futuri) di terapia intensiva; ai funerali per come si svolgono e alle persone (medici , infermieri, operatori) che accudiscono i malati.
Chi conosce i reparti di terapia intensiva sa – al di là delle buone volontà – che in quei luoghi si combatte per la vita contro la morte. Nella solitudine: nell’ansia di sapere se c’è ancora un pezzo di respiro o la morte si sta avvicinando. I medici sono bravi perché non ti daranno mai una risposta personalizzata: parleranno di statistiche di chi si salva e di chi è vittima di una prognosi fatale. Ti conterai tra chi si salva, perché è l’unico modo per sperare. Improvvisamente tutto è cambiato: sei un paziente in mano altrui. Se sei vecchio la confusione è totale: senti il freddo dell’abbandono e degli aghi, cannule e caschi di cui sei pieno. Se le vene sono sufficientemente evidenti va bene, altrimenti saranno costretti a bucarti fino a che non troveranno il tuo sangue. Dopo le prime ansie, entrerai in una specie di zona grigia: anche con l’aiuto di qualche sedativo. Aspetti e puoi appellarti a chi vuoi, ricordando cose che ti sono più care. Intorno è silenzio e il muoversi di persone che vanno e vengono. Non conosci nessuno; hai solo la possibilità di guardare gli occhi di chi fa qualcosa per te. Speri in un cenno di sorriso. Fino a che inizia l’agonia. Un periodo più o meno lungo di preparazione alla morte. Da quando sei partito, per giorni e settimane, sei rimasto solo, senza nessuno accanto.

La condizione più straziante è di chi proviene da strutture dove era già ricoverato per malattie pregresse. I tuoi non potevano assisterti e ti hanno sistemato in qualche luogo sanitario. L’economia di scala ha suggerito dai 20 ai 40 posti letto, con personale che ha dovuto rispettare il minutaggio per la tua assistenza. Lì almeno potevi avere qualche visita. Qui nessuno. E’ uno dei dolori più lancinanti. Invocherai che qualcosa non ti faccia pensare, per non impazzire. Se morirai i tuoi lo sapranno per telefono. L’unica presenza è la fotina sui necrologi del giornale.

Il virus è cinico e vigliacco. Sembra invisibile e invece è molto presente e diffusivo. Non perdona nessuno: nemmeno chi, con dedizione e sacrificio, ha rischiato per te; qualcuno ne è rimasto vittima, nonostante maschere e grembiuli. Sarebbe bello che l’angelo custode ti apparisse, ti parlasse per consolarti. Dovrai accontentarti di chi quotidianamente lotta per salvarti la vita: sono angeli anche loro. Lo sforzo di tutelare chi è a rischio è alto. L’umanità e le competenze dell’accudimento non devono aver remore, né tanto meno calcoli. Se il virus entra in luoghi resi fragili dalle condizioni fisiche delle persone è la fine.

Di fronte a simili tragedie fa un po’ sorridere chi si preoccupa delle Chiese chiuse e delle Messe saltate. Si sono dimenticati di quante volte, pur essendo le Chiese aperte e le Messe celebrate, sono andati al mare o a fare la spesa. Fanno rabbia invece quanti sono superficiali e spocchiosi. Non riescono a stare nella propria casa per giorni: basterebbe pensare all’ipotesi di un ricovero in terapia intensiva per diventare più seri. La vita è un bene preziosissimo e va tutelato sempre, soprattutto per chi ha condizioni deboli e residue.

Nella rete è apparso un video nel quale una donna si lamentava di come fosse stata trattata la salma di suo padre. Con parole forti ha gridato “come un cane”. Le scene dei carri funebri in fila verso i cimitero o le salme accumulate in Chiesa, nel vuoto totale, fanno rabbrividire. I morti sono abbandonati: per paura, per necessità, forse anche per disprezzo. Il richiamo inconscio è per la Geenna di biblica memoria: essa denotava la valle di Hinnom, il burrone stretto e profondo a sud di Gerusalemme, che era stata la sede del culto di Moloch, sacrifici di vittime umane. In seguito mutato in fogna, dove si gettavano le immondizie e ossami degli animali morti nella città. Per il Vangelo è figura e luogo di punizione delle anime perdute. Eppure quelle persone morte in questi giorni erano cristiani, padri e madri, nonni e nonne, parenti. Non una Messa, una lettura biblica, una benedizione. Si potrebbero celebrare delle Messe per i defunti in streaming, ricordando i loro nomi, oppure una benedizione nei cimiteri prima dell’ingresso delle bare. Il celebrante, anche solo, sarebbe il segno cristiano per la vita futura di chi non c’è più. Il sospetto è che tutta l’attenzione è rivolta alla sopravvivenza. Sentimento insito nella natura, ma che deve essere gestito insieme all’anima. Forse il sintomo (terribile) della scarsa sensibilità religiosa che, nelle tragedie, si manifesta in tutta la sua crudezza.