Dal sacerdozio alla “missione”: la lectio doctoralis di don Vinicio Albanesi

Dal sacerdozio alla “missione” di orientare le proprie risorse verso persone in difficoltà: sofferenti, sole, povere. Don Vinicio Albanesipresidente della Comunità di Capodarco che da 50 anni si dedica alla disabilità e al disagio sociale – ha ripercorso così la sua “vita speciale” nella lectio doctoralis tenuta all’Università di Macerata che stamattina gli ha conferito la laurea honoris causa in Scienze pedagogiche. Una lettura personale e intensa del suo impegno quotidiano che si può sintetizzare in una frase: “Lo scopo ultimo di ogni intervento pedagogico è verso la libertà capace di produrre felicità”. E una riflessione sulle comunità che ancora oggi desiderano comunicare scienza e virtù, ispirandosi a valori come la gratuità, il perdono, la benevolenza.

Di seguito una sintesi della lectio magistralis di don Vinicio Albanesi.

Una vita speciale – Negli anni 50’-60’ la crescita dei minori era impostata sul sacrificio (spesso accompagnato dalla repressione): in famiglia, a scuola, nel paese, in parrocchia, nel seminario. Molto presto siamo stati addestrati alla solitudine, alla fatica, alla sofferenza: tre punti fermi della crescita. La vita sarebbe stata – secondo gli educatori – una dura lotta per la sopravvivenza. L’addestramento ha funzionato perché, scelta la strada, non ci sono stati rimpianti. Nelle scelte di vita si sono sovrapposte due direzioni: verso il sacerdozio e verso il sociale. Per il sacerdozio, a venti anni, ho letto, nelle circostanze della mia vita, la mano di Dio: in fondo era un privilegio a cui ho dato risposta, con la coscienza di doverlo onorare. Per il sociale ho ritrovato in me una attitudine che, sinceramente non so da dove e perché sia nata. Per attitudine intendo il desiderio positivo di orientare le proprie risorse verso persone in difficoltà, chiunque esse siano: sofferenti, sole, povere, marginali, in disagio. Non è donatività e nemmeno compassione: è l’esprimere le proprie facoltà affettive, intellettive e pratiche per raggiungere lo scopo nobile di essere e fare felici. Condizione indispensabile per essere utili agli altri è il rispetto della persona. Accogliere è il risultato dell’incontro del desiderio positivo con il rispetto. La parità tra chi aiuta e chi è aiutato non si raggiunge nella vita concreta, ma in un livello superiore dove chi aiuta compie un’azione che soddisfa prima di tutto se stesso perché è nobile e chi è aiutato perché esce dalle sue difficoltà e raggiunge gli scopi della propria vita.

I mondi favorevoli –Nell’impegno sociale l’ambito di intervento migliore è la famiglia, luogo intenso e proficuo di affetti e di legami. Quando l’ambito familiare è causa di disagio diventa difficile recuperare stima e reciprocità, dovendo così ricorrere a distinzioni e ad allontanamenti. Con un’attenzione: anche con un padre o una madre o fratelli pessimi, si hanno legami e desideri benevoli che non si dimenticano, anzi si desiderano. Altro ambito sociale favorevole è il gruppo di amici. In alternanza alla famiglia e agli amici si hanno i luoghi di aggregazione: lo sport, una passione comune, un interesse particolare. C’è infine l’ambito dell’ideologia.

La comunità –La comunità è un surrogato della famiglia, perché ne è una ricostruzione. In comunità i componenti, i ritmi, i climi, i luoghi non costituiscono la famiglia, ma ne sono analogia. La relazione non è tra genitori e figli, fratelli e sorelle, nipoti e nonni, parenti e amici: è altro. La prima scelta è non scimmiottare ciò che non è. E’ cosa migliore raccontare la “verità”: disagio, lontananze, senso di abbandono sono la condizione di chi è ospite. La comunità surroga gli squilibri e può offrire sostegno perché il “dolore” sia alleviato, senza la pretesa di essere sostitutiva. Nella recente storia del sociale, il modello di comunità nasce in Italia alla fine degli anni ’60. E’ un modello inventato soprattutto per le disabilità e le dipendenze. Si allargherà in seguito alla malattia psichiatrica, all’infanzia abbandonata, alle persone disastrate o sole. Il riferimento rimane la famiglia, intesa più o meno liberamente. Le regole di convivenza sono poche e semplici: rispetto reciproco; gestione operosa di sé e della casa; integrazione sociale; comportamenti affettivi familiari. La vita di comunità ha le sue limitazioni: convivenza forzata (non tutti sono amici); minore libertà personale, anche di movimento. Nel tempo le comunità hanno assunto sempre più forma organizzata e, a vari titolo, riabilitativa e terapeutica.

Il servizio sociale – Oggi è attivo lo schema del “servizio sociale” pubblico, organizzazione preposta dalle autorità competenti per dare risposte adeguate a problemi “sociali” di un determinato territorio. Le differenze con una comunità creata non sono molte, ma incidono su metodologie e interventi. I referenti responsabili sono più anonimi e volatili: comune, provincia, sono autorità lontane e variabili; la responsabilità è affidata al funzionario (direttore, responsabile) che deve essere, oltre che efficace, anche appassionato; gli operatori sono selezionati per competenze scientifiche. Le persone accolte sono affidate a “liste d’attesa”, con il grave rischio di incompatibilità di presenze che pure hanno bisogno di risposta. I rischi sono quelli dell’incertezza di orientamento tra tecnico e valoriale. Ogni pedagogia ha basi culturali e sociali alle quali fa riferimento. La domanda è chi determina tale orientamento. Trattandosi di relazioni (educative) la scienza richiede chiari elementi di riferimento.

Scienza e virtù – Se all’inizio prevalevano buona volontà o buon senso, con poca attenzione alle professionalità, nel tempo le competenze riabilitative e terapeutiche si sono intensificate. Oggi esistono comunità con esclusivi interventi terapeutici e riabilitativi. Ma anche comunità che desiderano comunicare scienza e virtù. Difficile riassumere i valori: la

comprensione; la sollecitudine; la benevolenza; la cortesia, la mitezza; la gratuità; la gratitudine; il perdono; la testimonianza; la paternità, la maternità, la fratellanza; l’aiuto economico; il tempo. In questo quadro si innestano le competenze. Prevalentemente relazionali, ma anche in prospettiva sociale, istituzionale e territoriale. La prima competenza è posizionarsi in maniera corretta di fronte all’altro bisognoso di aiuto; saper coniugare la vicinanza, con l’attenzione al bisogno dell’altro; situarsi nella storia dell’altro; offrire futuro; intrerpretare il momento che l’altro vive, ma che è anche legato al proprio vissuto; non perdere mai l’obiettivo della missione da compiere.

Strumenti speciali – Lo strumento cardine della vita comunitaria è la relazione. Intesa correttamente, senza dimenticare la prospettiva temporale e spaziale per chi è stato accolto. Temporale perché il futuro orienta a una vita autonoma; spaziale perché ognuno, appena autosufficiente organizzi la propria esistenza. Simile metodologia va seguita per ogni tipo di accoglienza, anche se si diversificano metodi e strumenti, soprattutto per adulti, per famiglie o per gravi disabilità.

Contesti specifici – Se l’accoglienza ha una base di riferimento e di azione costante, le situazioni di contesti specifici aprono l’orizzonte verso interventi mirati. Tra questi sono da ricordare: le disabilità gravi e gravissime, la sofferenza psichiatrica, le dipendenze, condizioni di disagio e/o di trasgressione. Le metodologie conservano i contenuti valoriali e pedagogici di base, ma debbono confrontarsi con storie personali più complesse e personalizzate. La caratteristica che le accomuna è la condizione “bloccata” di “non libertà” , derivante da malattia o da dipendenza.

Gli operatori – Nel progetto pedagogico appena descritto non sono da sottovalutare i legami e le relazioni che esistono tra gli operatori di una équipe. Le gradazioni di attaccamento alla causa, di preparazione, di carattere, di storie personali si intersecano al momento del servizio. Una équipe coesa, propositiva, competente è indispensabile per raggiungere i risultati del servizio. E‘ indispensabile la formazione permanente.

Libertà e felicità – Lo scopo ultimo di ogni intervento pedagogico è verso la libertà capace di produrre felicità. Un compito arduo perché solo con un’autentica libertà può essere garantita la conseguente felicità. Difficile costruirlo per chi ha limiti evidenti fisici, intellettivi ed emozionali. E’ la responsabilità di chi si definisce educatore, stretto tra due imperativi ineludibili: non tradire se stesso, ma anche non interferire sui desideri di chi è accanto. Si tratta di una sfida: correre verso ideali di rispetto, di cura e di gioia, con tutti i condizionamenti di vite e di risorse che si intrecciano negli ideali, attraverso le azioni concrete delle giornate tristi e di festa.

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