Comunità San Claudio tra medicina narrativa e Covid19: la propria storia come cura

“In questo tempo che ci distanzia tutti per necessità e che isola ancora di più mondi già gravati da stigma e separatezza, lo spazio e tempo delle storie personali sta offrendo percorsi inaspettati su mondi che sembravano irraggiungibili o lontanissimi”. Sono le parole del dott. Ubaldo Sagripanti, psichiatra del Dipartimento di salute mentale, che prova a raccontarci il percorso di Medicina narrativa avviato – durante l’emergenza Covid19 – all’interno della San Claudio di Corridonia (MC), realtà residenziale legata alla Comunità di Capodarco di Fermo che, attraverso attività riabilitative e relazionali, accoglie circa una ventina di persone con problematiche psichiatriche.

LA PERSONA E LA SUA STORIA PROTAGONISTE DELLA CURA

“Con il termine di Medicina narrativa (mutuato dall’inglese Narrative Medicine) si intende una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. Spiega il dott. Sagripanti -. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura. Il fine è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura). La Medicina narrativa (Nbm) si integra con l’Evidence-Based Medicine (Ebm) e, tenendo conto della pluralità delle prospettive, rende le decisioni clinico-assistenziali più complete, personalizzate, efficaci e appropriate”. La narrazione del paziente e di chi se ne prende cura “è un elemento imprescindibile della medicina contemporanea, fondata sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie diventano protagoniste del processo di cura”.

MEDICINA NARRATIVA PSICHIATRIA E PANDEMIA

“È un percorso di ricerca ricco di scoperte che stanno conducendo a sviluppi inaspettati nel rapporto tra pazienti e curanti, specialmente nell’ambito di una comunità protetta con una prevalente attività socio-riabilitativa rivolta a pazienti cronici” spiega lo psichiatra. Alla San Claudio di Corridonia “stiamo realizzando una raccolta delle narrazioni degli ospiti che, in piccoli gruppi, sviluppano una proposta di traccia alternandosi tra loro. L’educatore ha il ruolo di facilitatore, mentre psichiatra e psicologo non partecipano attivamente all’attività interpretando un ruolo esterno di indirizzo e supporto o eventuale supervisione, qualora necessaria. In questo tempo che ci distanzia tutti per necessità e che isola ancora di più mondi già gravati da stigma e separatezza, lo spazio e tempo delle storie personali sta offrendo percorsi inaspettati su mondi che sembravano irraggiungibili o lontanissimi e invece stanno rivelando una loro fragrante presenza che stimola l’ascolto, conduce altrove e sostanzialmente libera i rapporti tra esseri umani oltre ogni barriera di malattia e di contingenza. Parallelamente stiamo operando per documentare l’efficacia dell’iniziativa, il suo impatto sulla qualità di vita degli ospiti e su quella dell’assistenza erogata. Non ultimo, sul piano personale, mi sento coinvolto da un clima di freschezza che nella condizione di clausura dovuta al Covid19 mi sta aiutando ad attraversare questo passaggio e a riflettere ancora una volta sul mio operare; ho la sensazione che questo luogo si allarghi, si trasformi in un paese con strade e piazze sempre più animate”, conclude.

UN PICCOLO DETTAGLI PUO’ APRIRE LA PORTA DELL’ANIMA

“Inizialmente ho vissuto uno stato d’animo caratterizzato da preoccupazione e ansia, soprattutto per la presenza della telecamera che registra ogni nostro incontro – confida l’educatrice professionale Romina Divisi, coinvolta nel percorso -. Successivamente però, grazie alle indicazioni della psicologa che mi ha osservato condurre alcuni gruppi, sono riuscita a trovare una mia dimensione che mi ha permesso di sentirmi più a mio agio. Fondamentalmente mi è stato suggerito di essere me stessa, la stessa che incontra quotidianamente queste persone da vent’anni, senza sentirmi obbligata ad assumere un ruolo differente. Rispetto agli ospiti, sento ancora un po’ di difficoltà a restare nel ruolo di facilitatore e a non intervenire in maniera ‘invadente’”.
“I nostri ospiti vivono questo momento con sempre più piacevolezza, riuscendo a superare le loro titubanze e ad apprezzare l’interazione con il gruppo. Stiamo insieme superando la diffidenza verso la telecamera – aggiunge Benedetta Scipioni tecnico della riabilitazione psichiatrica – . In alcuni casi anche le persone generalmente più introverse sono riuscite a condividere i loro vissuti e le loro esperienze con i compagni di viaggio. Di fondamentale importanza appare il setting protetto, che garantisce agli ospiti la necessaria riservatezza e il dovuto raccoglimento”.
“Ad inizio la proposta del dottor Sagripanti  ha colto di sorpresa noi operatori perché  la Medicina narrativa non era mai stata affrontata come percorso terapeutico in comunità – racconta  Lazar  Carmen, infermiera -. Ho percepito le preoccupazioni delle colleghe e la loro voglia di mettersi in gioco. Inizialmente gli ospiti mostravano una certa resistenza, dovuta, forse alla paura di mettersi in contatto con sé stessi. Da spettatore ‘non invitato’, ascoltando le loro storie ho capito quanto sia importante  raccontare e raccontarsi per mettere ordine nel caos che la malattia psichiatrica porta con sé a maggior ragione in un tempo sospeso come ora. L’intimità del setting e l’allenamento all’ascolto attivo ha consentito a noi operatori di beneficiare di una comunicazione più autentica  con gli ospiti. A volte basta un piccolo dettaglio, come diceva Rita Charon (fondatrice della Medicina narrativa, ndr), per aprire la porta dell’anima”.