Per questo inizio 2025 Martina ci regala un pizzico della sua storia, dal “legame ritrovato” con la mamma Lorella malata di Sla alla paura di quando non potrà più comunicare con lei. L’incontro con il Centro Ambulatoriale della Comunità di Capodarco di Fermo e il problema “enorme, gravissimo” della ricerca di badanti o di qualcuno che si occupi di una malattia così complessa. La storia di una mamma dalla forza unica e una donna che parla da adulta ma è ancora una ragazza…

Martina e mamma Lorella
CAPODARCO DI FERMO – Abbiamo imparato a chiamare le persone che si occupano della cura e dell’assistenza di un familiare non autosufficiente con il termine inglese “caregiver”. Dietro quel neologismo si nascondono talmente tante persone che ne perdiamo i tratti, lo spessore, il singolo impegno. Ad esempio, ci dimentichiamo che spesso sono ragazzi e ragazze a cui la vita ha chiesto di diventare velocemente adulti, sostenere carichi più grandi della loro esperienza, pesi maggiori della loro età. Figli e figlie, che non si sono tirati indietro, hanno accettato la sfida e per sostenere il dolore dell’altro, spesso, hanno imparato a nascondere il proprio. Di storie così, la Comunità di Capodarco di Fermo ne ha incontrate davvero tante. Questa di Martina e della sua mamma Lorella, ne è una.
MARTINA CI RACCONTI COME È ANDATA? QUANDO AVETE SAPUTO CHE LA MAMMA ERA MALATA?
“La diagnosi arriva nel 2019, anche se i problemi si erano presentati prima. Mamma in quel periodo viveva da sola, io ero all’Università, frequentavo la Magistrale in Psicologica Clinica a Urbino. Quando rientravo a casa la vedevo spesso giù di morale, non aveva voglia di fare niente, anche se stimolata. In quel periodo immaginavo che sotto ci fossero problemi legati a una sorta di depressione. Con il senno di poi, erano avvisaglie da ricondurre alla malattia. Ero convinta che lo specialista durante la visita neurologica le dicesse, ‘è depressione’, invece ha richiesto un ricovero per approfondire. Tutto potevo immaginare, meno che la Sla (Sclerosi laterale amiotrofica). A confermarlo è stata l’elettromiografia. Io avevo 23 anni, sono figlia unica, sentire questa cosa mi ha destabilizzata. Per i primi periodi mamma era abbastanza autonoma, non serviva la mia presenza. Certo, avrei potuto darle supporto psicologico, ma serviva a me, non ero in grado di aiutarla, sono rimasta a Milano dove mi ero trasferita per scrivere la tesi. Il Covid ci è venuto incontro e nel 2020 sono tornata. La sua situazione era progredita (prima il girello, poi la carrozzina) e da quel momento me ne sono presa cura io”.
L’INCONTRO CON LA COMUNITÀ DI CAPODARCO E IL PROBLEMA “GRAVE” DELLA RICERCA DI BADANTI
“Sin da subito è stata presa in carico dal Centro Ambulatoriale della Comunità di Capodarco di Fermo. Nei primi periodi, ancora autosufficiente, andava da sola a fare la fisioterapia. Si trovava molto bene con la fisioterapista Alessandra Mercuri e con Vanina Zampacavallo per la logopedia, ma avendo avuto sin da subito problematiche a parlare e deglutire, la logopedia le è servita per poco tempo. Alessandra invece l’ha seguita dall’inizio al Centro, fino alle prestazioni domiciliari, per noi è un punto di riferimento, una di famiglia. Tutto quello che so l’ho imparato da lei. Nei momenti importanti il Centro Ambulatoriale seguito dalla direttrice sanitaria Valentina Koxha, ci ha affiancate, accompagnando mamma in tutto il percorso terapeutico, nelle decisioni cruciali e in tutte le fasi della malattia, io mi sono affidata più che potevo. Grazie all’aiuto del neurologo Patrizio Cardinali e a quello della Comunità, ho potuto allungarle l’età. Non so neanche se lei, poi, ne sia contentissima, ma allungarle la vita le ha permesso di assistere alla mia laurea e di conoscere i suoi nipotini. Nonostante tutti gli aiuti, lo devo dire, rimane il problema enorme, gravissimo delle badanti. Il fatto che non ci sono strutture idonee a gestire questi pazienti è un problema, perché purtroppo ci sono tanti malati, soprattutto in queste zone e ci sono tante persone che fanno fatica. Ad oggi non riesco ancora a capire come mamma sia viva. Se non hai una rete familiare allargata, prendersi cura di un paziente così e quasi impossibile. Manca in Regione e in generale nel territorio, un punto dove potersi rivolgere per avere delle badanti o qualcuno che si occupi della Sla, la cui gestione prevede un approccio multidisciplinare”.
QUANDO NON LE FUNZIONERANNO PIÙ GLI OCCHI: “COME POTRÒ AIUTARLA?”
“A contatto con la malattia diretta, fondamentalmente ci sono io. Sinceramente è difficile gestire una patologia più grande di me, sia a livello psicologico che mentale e fisico. A volte il carico è maggiore di quello che una ragazza da sola può affrontare. Ad un certo punto mi sono trovata anche a sollevarla di peso, a seguire situazioni complesse, a sostenere la sua emotività, perché alcune cose non le accettava. Sono stata trattata forse troppo come una adulta, troppo da responsabile. Da un lato mi ha fatto piacere, dall’altro avrei voluto esser meno caricata dalle questioni. Oggi mamma è allettata e l’unica cosa che fa è muovere gli occhi, comunica così. È riuscita a scrivermi diverse lettere che mi hanno fatto piacere. Io cerco di raccontarle tutto quello che faccio, tenerle compagnia quando ci vediamo, anche se non abbiamo privacy, la sua è una routine impegnativa. Quando mi vede preoccupata, a volte riesce a darmi dei consigli, ma io cerco sempre di stare allegra, tranquilla, spensierata, per non farle avere il peso che non stia bene io. Il prossimo scoglio da affrontare sarà quando non le funzioneranno più gli occhi. Dovrebbe essere preparata, non ne vorrebbe parlare e la capisco, ma io ci penso, si parla di un momento disastroso, ma bisogna esser preparati anche a questo. Cosa posso fare io, se lei non riuscirà più a scrivere e comunicare, come potrò aiutarla?”
“MAMMA È LA PERSONA PIÙ FORTE CHE ABBIA MAI CONOSCIUTO, NON VOGLIO PERDERLA PRIMA DEL TEMPO”
“La sua malattia ci ha unite. Le ho dimostrato il mio affetto, prendendomene cura. Lei mi ringrazia, dice che mi stima e che non potrà mai ripagarmi abbastanza per quello che ho fatto per lei. A me dispiace perché non ha molte motivazioni per rimanere in vita, se non me e i suoi due nipotini. Anche per la decisione per la tracheostomia, inizialmente non voleva, poi si è convinta, a me dispiaceva perderla prima del tempo. Le voglio molto bene, un legame così profondo che non pensavo di avere. Un legame che abbiamo ritrovato. Ritengo sia la persona più forte che abbia mai conosciuto, nella sua stessa situazione io non avrei resistito. Forse lei resiste per ripagarci degli sforzi che facciamo e per questo la ringrazio”. (s.lup)