“Il welfare non è fallito ma va ripensato alla luce dei nuovi bisogni”. Lo ha detto il sottosegretario al ministero dell’Economia Pierpaolo Baretta al seminario di Capodarco “Guerra e pace”. Baretta è stato ed è protagonista degli ultimi anni di storia politica ed economica del paese. Nel sul intervento ha toccato i temi della fragilità del sistema paese nell’indeterminatezza del quadro politico, ora che gli “ismi” del passato sono naufragati, nel contesto di paura in cui viviamo e in cui la crisi economica da passeggera è diventata strutturale. La politica deve gestire ora la situazione difficile di una “frenesia immobile”, un ossimoro che testimonia la tendenza a fare di chi gestisce la cosa pubblica ma si dimena e non trova soluzione.
“Il peso della politica – ha detto Baretta – è ancora elevatissimo. In generale in questa fase storica di fine delle ideologie si sono liberate energie ma è rimasto un vuoto clamoroso. I blocchi sono scomparsi ma il vuoto si vede ed è valoriale. C’è uno sbandamento evidente, di cui le persone soffrono. Questo dipende dalla caduta del Muro di Berlino che è stato il primo di questi cambiamenti. Poi c’è stata la crisi del 2008 paragonabile solo a quella del 1929. Cosa ha detto la crisi? Che la crescita non è infinita: dopo la seconda guerra mondiale c’era una crescita generalizzata, ma contenuta a certe fasce di popolazione. Poi è arrivata la globalizzazione che ha portato milioni di persone fuori dai circuiti a entrare in ‘sala da pranzo’ ma i posti non c’erano. Così sono aumentate le disuguglianze. Milioni di persone si sono affacciate alla domanda e la crisi ci ha tolto l’illusione ottica della crescita infinita”.
Come si esce da questa crisi di valori di riferimento? “Il problema – ha sottolineato il sottosegretario – è che dopo la crisi è ripartita una idea di tipo consumistico, senza una chiave di redistribuzione. E’ stata bandita la parola ‘austerità’ ma poteva essere adottato il termine ‘sobrietà’. Io non credo alla decrescita felice finché c’è qualcuno che ha fame, ma la crescita va redistribuita. Il ‘ben-essere’ è per tutti, con un criterio di tipo redistributivo”
Oggi, “è evidente che non è pensabile andare avanti se non ci si pone il problema del clima” . In questi giorni è “passata inosservata la notizia che abbiamo investito 55 miliardi in 15 anni per riconvertire la crescita dal punto di vista del clima, considerando i costi della transizione, altrimenti si creano dei buchi in cui la gente cade”.
In altre parole, le ideologie hanno liberato energie ma hanno lasciato un “vuoto di strategia di riferimento”. Perciò, “oggi l’emergenza è la sostenibilità”. “Serve una diversa cultura del bilancio: la politica è cambiata, sono scomparsi i partiti sostituiti da movimenti che per loro natura sociologica sono temporanei. Come si realizza la struttura di riferimento? C’è crisi di rappresentanza: questo è un tema a cui dedicarsi. Gli ‘ismi’ sono scomparsi, e ora c’è un vuoto che non è negativo in sé ma può essere riempito”. Tornando al tema “Guerra e pace”, Baretta ha osservato: “Il mio approccio al conflitto è assumerlo e trovare soluzioni. Il conflitto è fonte di cambiamento e rigenerazione, è vita se trova soluzione altrimenti è fine a se stesso ed evolve in disperazione. Poi c’è il politico che alimenta il conflitto e quello che lo assume e trova soluzioni operative. La risposta sta nella capacità di risolvere la crisi della rappresentanza”. Tuttavia, “la possibilità dell’uomo solo al comando non esiste, ma bisogna costruire una rete collettiva”. “I movimenti ci sono ma sono una parabola, crescono e poi svaniscono. I movimenti finiscono per concludersi in se stessi, nascono su un obiettivo, mentre il partito e il sindacato nascono su un fine che raccoglie obiettivi”. “I movimenti sono fonte di cambiamento, si sente la loro pressione, ma se restano tali si finisce nel corporativismo”.
Oggi, “si è strutturata una fase di forti zone corporative dove non esiste sintesi di carattere generale perché i movimenti non sono disponibili alla mediazione con opinioni diverse. Questo è un problema di tipo gestionale”.
Altro tema la legge di bilancio che va fatta con “chiari obiettivi di carattere strategico”: “Noi abbiamo preparato un emendamento per ridurre l’iva sugli assorbenti ma non riusciamo sulle auto per i disabili, quelle elettriche. Ma quale è la priorità? Oggi il movimento ci sta portando a una decisione certa sugli assorbenti ma non c’è lo stesso movimento per le auto dei disabili. Allora bisogna costruire una rete relazionale che anche costruisca conflitti ma li risolva”.
Quale è allora il ruolo del welfare nella nuova società? Quale è il welfare del 2020? “I problemi del futuro – ha risposto il sottosegretario – sono quelli che segnano il cambiamento del nuovo che viene avanti. Si tratta di quattro punti: comunicazioni (5 miliardi di persone hanno il telefonino e 3 miliardi lavorano con internet); mobilità; demografia (siamo il terzo paese per attesa di vita ma con una bassissima natalità); clima (‘oggi l’acqua è più importante del petrolio’).
In questa ottica “si parla di welfare che deve superare una visione dicotomica. Ma serve un blocco unico, una risposta complessiva. Dobbiamo ripensarlo alla luce di queste novità. La domanda di welfare è destinata a crescere ma lo Stato è in grado di reggere la domanda di welfare crescente? La visione culturale oggi fa coincidere il welfare con il pubblico e lo Stato ma non è così altrimenti non esisterebbe il terzo settore”. In questo discorso si inserisce il tema delle detrazioni e deduzioni fiscali. Oggi ciascuno con la dichiarazione redditi dispone di 700 voci: sono tutte rispondenti ai nuovi bisogni? Abbiamo 250 miliardi di cui almeno 3 o 4 potrebbero essere riconvertiti su spese nuove. Allora la mediazione sociale è fondamentale, mentre nel caso del welfare le risposte sono ancora tutte tradizionali. Oggi c’è la silver economy: la gestione del tempo è una sfida per il welfare”. “Il fondo per la famiglia diventa unico, ma c’è da fare la discussione sulla autosufficienza da riorganizzare, uscendo dalla logica delle lobby”. In questo sono importanti i comuni: “Noi abbiamo 8000 comuni e molti sono sotto 1000 abitanti. Abbiamo lasciato a mezza via il dibattito sulle province che non sono né morte né vive. Nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il tema delle regioni che sono squilibrate. Il dibattito sulle macroregioni è la parte più utopica, ma necessaria. Non aver fatto la riforma del senato delle autonomie è un problema, ma almeno occupiamoci dei comuni che sono la parte più stabile e sciogliamo il nodo delle province”. E lo spread? “Con il governo Conte bis è sceso clamorosamente, ma si può ridurre ancora. Tuttavia abbiamo un debito pubblico clamoroso”. Infine l’Europa: “Io sono europeista e ora che la Commissione è cambiata è un momento favorevole contro il sovranismo”.