Accoglienza, formazione, “collaborazione”: tre tappe per l’inclusione dei migranti

don Vinicio Albanesi © Stefano Dal Pozzolo

don Vinicio Albanesi © Stefano Dal Pozzolo

CAPODARCO DI FERMO – Prima accoglienza, formazione, integrazione. Passa per queste tre tappe il progetto di inclusione che ha in mente don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco e della fondazione Caritas in veritate, che da tempo si occupa dell’accoglienza dei profughi, attraverso un centro di prima accoglienza all’interno del seminario arcivescovile di Fermo. Un punto di osservazione privilegiato, insomma, che consente di capire le criticità strutturali di un paese che si trova a fare i conti con l’arrivo di decine di migliaia di migranti e che deve far fronte anche a crescenti segnali di malumore provenienti dai territori.

Ma come organizzare l’iter dei migranti sul territorio italiano in maniera tale da renderlo proficuo per i diretti interessati e rassicurante per il resto della popolazione?

“Abbiamo notato una serie di passaggi da migliorare – afferma don Albanesi -. Il primo è costituito dalla lunga attesa che caratterizza il periodo che va dall’arrivo in Italia all’esame delle commissioni: passano mesi inutilmente. In questa fase c’è paura, spaesamento, molti non sono mai stati in Europa, non sanno cosa fare. Non c’è un piano preciso di intervento: la convenzione parla genericamente di ‘accoglienza’, di integrazione, ma un piano specifico non esiste. Vengono dunque accompagnati inizialmente senza un minimo di criterio. Non c’è una distinzione per paese di origine, per attitudini personali, ecc… Come arrivano i barconi, vengono divisi e spediti da noi. Arrivano stressati, spesso con qualche problema sanitario, e assolutamente incapaci di orientarsi. Dunque la prima cosa da fare è organizzare una permanenza minima, per preparare il terreno”.

In questo contesto, secondo don Albanesi, sarebbero diverse le cose da fare: “La prima è obbligare all’apprendimento della lingua italiana. E’ una condizione che qualsiasi paese europeo pone, è basilare. Poi serve un corso breve ma chiaro di educazione civica. Spiegare le autorità, le leggi, cosa si può fare, quali sono i doveri, quali sono i diritti”.

Poi c’è il terzo “step”. Dopo la prima accoglienza e la formazione, la “collaborazione”: “Secondo me è anche possibile e doverosa una forma di collaborazione reciproca: io ti accolgo, ti tratto con dignità e rispetto, e tu aiuti la collettività in base alle indicazioni che dà l’ente locale o chi ti accoglie. Non si tratta di lavoro, ma di un’attività volontaria. Il volontariato l’abbiamo fatto tutti, è un impegno transitorio. Perché una persona non deve essere di aiuto a chi le dà ospitalità?”

Su questo aspetto, c’è qualche resistenza… “Perché viene fatto passare il messaggio che così facendo questi giovani immigrati rubano il lavoro agli italiani. Ma non è un lavoro, è un corrispettivo che il giovane dà per quello che riceve. In tal senso non può che essere gratuito. L’unica cosa da fare e avere una protezione infortunistica, tutto qua”.

Le donne immigrate e il racket della prostituzione. Ma non sempre il progetto migratorio è chiaro. “Abbiamo il sospetto fondato – denuncia don Albanesi – che le donne, quelle non arrivate con figli, siano selezionate nei paesi di origine per poi essere immesse nel mercato della prostituzione. Le eritree per esempio arrivano, sono spesso ragazze molto belle, hanno denaro, hanno il telefonino, hanno numeri a cui telefonare. E il giorno stesso del loro arrivo scappano via. E spesso sono accompagnate da una famiglia con persone che fungono da protettori”.

La denuncia di don Albanesi si spinge oltre: “Ci risulta che su alcune ragazze nigeriane siano stati fatti dei trattamenti farmacologici per interrompere il ciclo e, dunque, rendere la ragazza sempre disponibile a prostituirsi”.

I minori. Parlare di minori immigrati non è la stessa cosa che parlare di ragazzi italiani. Pesano, infatti, le difficili esperienze di vita. Afferma ancora don Albanesi: “Ragazzi che hanno affrontato il deserto africano, i viaggi della morte, hanno un altro approccio alla vita. Servono dei progetti personalizzati, con dei patti, e che vengano accuditi. Ma non come si accudisce un minore italiano, con un’assistenza che moltiplica all’infinito costi! Anche in questo ambito si può intervenire con azioni di tutela e inserimento a carattere meno assistenziale e più operativo”.

Percorsi personalizzati. Tra coloro che arrivano in Italia c’è di tutto. “C’è il ragazzo analfabeta che faceva il pastore e c’è il ragazzo laureato – afferma il presidente della Comunità di Capodarco -. Non si può trattare tutti allo stesso modo. E in genere le persone più sveglie, più pronte e con più risorse sul piano culturale, sono quelle che tendono ad inserirsi più rapidamente. Dunque il rischio che abbiamo è che nelle strutture rimangano solo i meno attrezzati”.

Come coinvolgere queste persone? Diverse le idee che stanno prendendo corpo. Spiega per esempio don Albanesi: “C’è tutto un lavoro da fare in agricoltura. In questo senso ho avuto delle richieste esplicite. Gli agricoltori più seri, infatti, cercano delle cooperative che li facciano stare tranquilli in termini di contributi versati, di regolarità lavorativa, ecc… Non vogliono o non possono permettersi il carico delle assunzioni però vogliono gente seria, che lavori. Allora si affidano a cooperative che organizzano il lavoro, pagano e sono tranquilli. In agricoltura la manodopera non si trova facilmente. In primo luogo perché è un’attività faticosa, poi perché richiede tempi più flessibili di lavoro”. (Daniele Iacopini)

(fonte; Agenzia Redattore Sociale)