CAPODARCO DI FERMO – La forza del terzo settore oggi non è data solo dal ruolo che svolge sul piano della solidarietà, ma su quello economico. Ed è a partire da questa consapevolezza che il terzo settore italiano può crescere e deve rivendicare il suo protagonismo. E’ l’analisi del sociologo Giambattista Sgritta, illustrata durante il suo intervento nella seconda giornata della festa per i 50 anni della Comunità di Capodarco. A dialogare con Sgritta, Goffredo Fofi, scrittore e direttore della rivista “Lo Straniero”, e Augusto Battaglia, presidente della Comunità di Capodarco di Roma. Il dibattito ha ripercorso la storia della Comunità di Capodarco vista nel quadro dei cambiamenti nella società italiana degli ultimi 50 anni con lo sguardo rivolto al futuro, affinché la spinta ideale che ha portato alla nascita della Comunità non si perda.
“Cinquanta anni di storia sono un pezzo importantissimo della vicenda italiana e non solo – ha spiegato Sgritta – . Sarebbe sbagliato circoscrivere l’analisi solo alla Comunità che nasce in un paesino delle Marche. Piuttosto, la storia della Comunità di Capodarco si inserisce nel quadro della storia del terzo settore, che è sempre esistito come mutua e reciproca solidarietà in quanto caratteristica costante della società tradizionale, in cui la famiglia contava fino a un certo punto, mentre il cemento erano i legami sociali. Questa società è entrata in crisi con la nascita della società industriale che ha creato problemi a cui la famiglia e la comunità solidale non sono state più in grado di rispondere. Allora sono nate le prime forme di responsabilità pubblica: lo Stato ha iniziato a intervenire per la protezione e la tutela con l’effetto secondario di buttare fuori la cultura famigliare tradizionale e la solidarietà interpersonale delle reti sociali. Lo spostamento è avvenuto poco a poco: il rafforzamento dello Stato sociale ha portato all’emarginazione del comparto ricchissimo di competenze della società civile. Tanto è vero che dalla filosofia sociale e dalla sociologia di lunga parte della storia del ‘900, la società civile non viene tematizzata: il gioco si chiude tra Stato e mercato, ma lo Stato sociale nasce già bacato perché dipende dal mercato che è produttore di rischi e emarginazione. Dunque, lo Stato dipende dal mercato, il mercato produce emarginazione che lo Stato cerca di tutelare con risorse dello stesso mercato. Resta escluso il terzo settore, mentre rimane in piedi il polo della famiglia: così si crea il triangolo ‘Stato mercato famiglia’”.
La Comunità di Capodarco nasce nel 1966, “un’epoca di idealità, con le proteste contro la guerra in Vietnam, i movimenti studenteschi, l’alluvione di Firenze e gli ‘angeli del fango’. Ma da allora in avanti cosa è successo? Il mercato ha cominciato ad andare avanti per conto suo diventando l’unico protagonista interessato solo al profitto e lo Stato ha cominciato a indietreggiare rispetto al suo ruolo sociale. Ora c’è l’affidamento al terzo settore come unica spiaggia: in Italia c’è la struttura familiare che lo affianca ed è molto forte ma già dà segni di stanchezza. Quello che manca è un catalizzatore che possa irrobustire le energie del terzo settore, oggi mandato allo sbaraglio”.
Secondo il sociologo, oggi il terzo settore può affrancarsi da questo ruolo marginale e diventare protagonista: “Lo Stato sociale è cambiato in peggio, quello che avevamo 20 o 30 anni fa si è progressivamente degradato. I mali sono la frammentazione istituzionale, la commistione tra previdenza e assistenza, l’incapacità redistributiva, la mancanza di un reddito minimo non categoriale e non contributivo. Sono aumentate la povertà assoluta e quella relativa, i giovani sono stati massacrati non solo dalla crisi ma anche dalla carenza di politiche rivolte a loro, è cresciuta la disuguaglianza. Stiamo costruendo sulle macerie: non si tratta più di esclusione sociale, siamo all’espulsione sociale. Persone che sono fuori dal mercato del lavoro e che non lo cercano più per disperazione. Ma la rappresentazione della realtà è distorta dal binomio ‘Stato e mercato’. Questa rappresentazione non va bene oggi. Allora non si capisce perché il terzo settore non possa entrare in scena come attore protagonista. Questa realtà conta, perché deve stare in disparte?”
“Il terzo settore – ha proseguito Sgritta – è una realtà fatta di 4,7 milioni di volontari, un milioni di occupati, un fatturato da 64 miliardi di euro, pari a tre punti di Pil. Ma se confrontiamo questi numeri con le altre nazioni, vediamo ad esempio che la Francia ha 9,5 milioni di volontari, il 10 per cento del Pil è prodotto dall’associazionismo volontario; gli Usa hanno oltre 62 milioni di volontari. Da noi il terzo settore deve crescere, mentre in Italia c’è una crescita limitata, abbiamo l’atrofia del volontariato. E la ragione per cui siamo in situazione di asfissia, è perché abbiamo una famiglia forte e con questo pretesto il welfare non ha costruito l’edificio sociale, scaricando i suoi oneri. La famiglia da noi è stata la più colpita e ora se ne pagano i costi”.
In questo quadro si inserisce la riforma del terzo settore che “commette un errore tragico: in quella legge la valorizzazione del terzo settore è sempre condizionata a un potere superiore dello Stato, è la presidenza del Consiglio che individua le linee di intervento, il monitoraggio e la valutazione dell’impatto sociale sono disciplinate dal ministero. C’è la subordinazione del terzo settore, ma è il terzo settore che tiene in piedi il paese nonostante la forza della famiglia. Lo Stato fa acqua da tutte le parti, i partiti non ci sono più: l’unica struttura effettivamente rimasta è il terzo settore, che è più forte del mercato. Il volontariato ha funzione di pronto soccorso, fa fronte alle emergenze, ha la funzione di supplenza e la terza funzione è la protesta che deve essere teatrale: se ci fosse lo sciopero del terzo settore saremmo di fronte al dramma. La realtà è che il terzo settore è protagonista sul piano non solo della solidarietà ma su quello economico. Ma questo cammino in cui il terzo settore si fa politico e assume protagonismo non va affrontato da soli: in questi anni c’è stato molto ‘ divide et impera’, c’è stato anarchismo. Non potete accontentarvi di quello che sarà il Consiglio nazionale del terzo settore, dovete rivendicare cose concrete, fate contare il fatto che avete una funzione economica primaria”.
Infine, un paradosso: “Mentre lo Stato sta cercando di affrancarsi da oneri che ha tenuto per 30 anni dal dopoguerra, mollando pezzi nella direzione del terzo settore, sono invece le teorie neoliberiste che si basano sul mercato come funzione propulsiva della società a salvaguardare di più famiglia e terzo settore. Questa può sembrare una bestemmia: le teorie neoliberiste, lasciando a enti spontanei e solidarietà corte la responsabilità di farsi carico dell’emarginazione, paradossalmente dà più appoggio al terzo settore che invece attualmente vive di sussidi da parte dello Stato e deleghe in bianco, sussidi che hanno anche la caratteristica del ricatto perchè neutralizzano la protesta”.
Secondo Goffredo Fofi, il passaggio all’azione deve tornare a essere la chiave di volta: “La comunità di Capodarco è nata negli anni Sessanta, gli ultimi anni felici della nostra vita anni perchè avevamo la speranza. C’è un abisso tra quegli anni e l’evo postmoderno che è nato subito dopo. Oggi le illusioni non valgono più, bisogna reinventarsi. Il tema della disobbedienza civile deve tornare, non dobbiamo essere prigionieri del nostro piccolo benessere, la storia esiste e bisogna essere presenti. Non serve un nuovo ’68, ma bisogna muoversi con responsabilità”. Ma “oggi tutto è diventato più difficile, fare scelte che possano cambiare il mondo oggi è diventato più complicato, nella storia i poveri non vincono mai o se vincono producono al loro interno una nuova genìa di potenti, ogni rivoluzione fallisce e diventa dopo un po’ reazione. La storia non è amica né dei buoni, né dei poveri ma dei potenti. E noi non siamo mai stati più massificati di oggi, noi non contiamo niente, fanno di noi quello che vogliono. Il male è la forza dominante del mondo e il bene non è mai stato più fragile di ora. La differenza è tra accettare e non accettare e trovare almeno modi di resistere. Cinquanta anni sono passati, ora bisogna ricominciare”.
“Abbiamo fatto pronto soccorso, abbiamo fatto supplenza, gestito servizi e attività – ha concluso Augusto Battaglia – ci siamo proposti operativamente e siamo stati nella nostra vicenda stimolo per le istituzioni con i nostri modelli innovativi. Oggi l’errore più grande sarebbe rimanere prigionieri nel nostro piccolo campo, altrimenti faremmo la fine di tante organizzazioni del privato sociale accreditato. Dobbiamo passare all’azione ma non da soli perché il mesaggio di Capodarco mantenga la sua attualità e capacità di cambiamento che abbiamo dimostrato in 50 anni”.
Il dibattito è terminato con l’intervento del presidente della Comunità di Capodarco don VInicio Albanesi che ha dato appuntamento ai relatori a Roma per mettere a tema tutte le indicazioni emerse e progettare un piano d’azione per il futuro. (ab)
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