Welfare, dall’inclusione alla conciliazione: 5 passi da fare nel 2018

Nel 2018 il welfare italiano si porta dietro di positivo il Rei, il reddito di inclusione introdotto alla fine del 2017, ma anche tanti punti deboli da rafforzare. A partire dalla stessa misura di contrasto alla povertà, che è solo un primo passo per raggiungere l’obiettivo dell’inclusione sociale. Lo pensa Maurizio Ferrera, professore ordinario di Scienza Politica alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università di Milano ed editorialista del Corriere della Sera. “Inclusione” è la sua prima parola chiave per pensare il welfare nel nuovo anno appena iniziato. La seconda è la coppia “servizi e conciliazione”, pensando soprattutto alla necessità di sostenere le donne che sono allo stesso tempo lavoratrici e caregiver. Per Ferrera “competenze e formazione” sono i pilastri di un welfare da concepire non solo nella sua funzione di protezione ma anche in quella di preparazione (al lavoro che si svolgerà). Invita a riflettere sui “contributi sociali”, ovvero su come si finanzia in particolare la spesa previdenziale, proponendo di tassare a questo scopo tutti i redditi, in modo da sgravare in parte le imprese. Infine richiama l’attenzione sulle politiche di “invecchiamento attivo”, che andrebbero accompagnate dalla creazione di un terziario sociale avanzato.

Inclusione. Per Ferrera è un obiettivo che resta fondamentale per lo stato sociale, perché “abbiamo dei livelli di povertà ed esclusione sociale ancora altissimi”, dice. “La campagna elettorale è imperniata su alcuni slogan che vanno in questa direzione. Il governo ha introdotto alla fine del 2017 questa nuova misura contro la povertà che si chiama reddito di inclusione, credo sia giusto e importante nel 2018 portare a compimento quello che si è fatto e fare passi avanti su questo punto cruciale per le chance delle persone”.

Servizi e conciliazione. “Servono più servizi alle famiglie, alle donne, ai genitori, agli anziani”, esorta Ferrera.“L’occupazione femminile in Italia è ancora molto bassa, proprio perché per le donne conciliare la vita familiare e quella lavorativa continua a essere un percorso a ostacoli”. Fra gli strumenti che le imprese possono usare per rimuoverli, Ferrera cita i tempi di lavoro, l’organizzazione del lavoro, i congedi. Ma soprattutto occorre rafforzare, in particolare nelle regioni che ne sono meno dotate, servizi come gli asili, il tempo pieno a scuola, i servizi di cura per le persone non autosufficienti.

Competenze e formazione. “Nel 2018 mi auguro che si possa innanzitutto costruire a partire da ciò che esiste in termini di formazione permanente di chi è già occupato, di servizi o iniziative di facilitazione della transizione scuola-lavoro, di miglioramento dell’alternanza nelle scuole secondarie, interpretandola nella sua giusta luce”. Ferrera insiste sulla necessità di avvicinare il sistema educativo e formativo e il mercato del lavoro, “nella consapevolezza che la scuola e la formazione sono diventati dei pilastri fondanti del welfare”, pensato non tanto nella sua dimensione protettiva (quella della previdenza sociale)  ma in quella “preparatoria”, come ciò che “mette le persone in condizione di lavorare bene e realizzare le proprie aspirazioni”.              

Contributi sociali. “Il nostro modo di guardare il welfare di solito è incentrato sul versante dell’uscita. Bisogna guardare anche quello dell’entrata” Secondo Ferrera questo permette non solo di capire come possa essere sostenibile sul lungo periodo, ma è anche un modo per redistribuire le risorse o comunque per fare politica redistributiva. In particolare il professore si concentra sul finanziamento della previdenza, imperniata sul versamento dei contributi sociali, che “hanno il pregio di stabilire una connessione esplicita fra ciò che uno versa e ciò che uno ottiene dallo stato sociale”. Tuttavia, “nonostante le riforme, nel nostro Paese il legame fra contributi e prestazioni è tutt’altro che equo”. La soluzione sarebbe una contribuzione sociale generalizzata alla francese, con l’obiettivo di abbassare di 3-4 punti percentuali la contribuzione sul lavoro dipendente (oggi al 33%) grazie a un prelievo su tutti gli altri redditi (capitale, investimenti, pensioni, ecc.). Questo permetterebbe, secondo il docente, di sgravare in parte le imprese, con effetti di maggiore competitività del sistema produttivo.

Invecchiamento attivo. Infine, Ferrera auspica l’attivazione di un insieme di politiche (servizi e incentivi monetari) per una transizione morbida dal lavoro alla pensione. “Credo che molte persone vorrebbero un passaggio più graduale, come avviene già per esempio per le professioni liberali, per i lavori più gratificanti che già si prestano a transizioni morbide, riducendo gradualmente il tempo di lavoro laddove sia possibile”. L’idea è di non pensare alla pensione come a un periodo di inattività, ma come a una fase in cui si possa rimanere attivi e ricevere un reddito da attività (non da lavoro) per integrare la pensione e continuare a mettere a frutto le proprie competenze. Secondo Ferrera, i pensionati attivi non toglierebbero posti di lavoro ai giovani. “Il ritardo di almeno 10 punti percentuali del nostro tasso di occupazione rispetto a Paesi paragonabili per popolazione come la Francia e l’Inghilterra non è cambiato neanche quando abbiamo abbassato l’età pensionabile. Trova invece origine, oltre che nei problemi del nostro sistema produttivo, caratterizzato da piccole e medie imprese, nel fatto che non si è mai sviluppato un settore di servizi”. Ferrera pensa in particolare ai servizi alla famiglia (oltre che a quelli turistici, culturali, ricreativi), ciò che chiama “terziario sociale avanzato”. “Non sto pensando al lavoro domestico degli anni ‘50, a un ritorno a una servant society”, precisa, “ma, come nei Paesi nordici, bisognerebbe sviluppare, un welfare mix, magari sussidiato dal pubblico, che, senza privare la famiglia delle sue responsabilità e senza privare bambini e anziani della dimensione affettiva familiare, metta a disposizione una rete di servizi di qualità esterni alla famiglia, che creerebbe un’occupazione di qualità ed entrerebbe nel Pil”, allo stesso tempo sgravando in particolare le donne dal lavoro di cura.

Fonte: Redattore sociale