Sla. Dall’ineluttabilità alla resilienza: la solitudine raccontata da Vitaliano

“Per un malato di Sla, ad un primo approccio, potrebbe essere semplice parlare di solitudine. Ma non lo è affatto. Nella mia vita precedente, così denomino quello che era prima della malattia, ero un solitario, ovvero non che non amassi la compagnia di altre persone, ma mi piaceva ritagliare i miei spazi, soprattutto nella lettura dei giornali, a volte anche due al giorno, Repubblica e Corriere della sera. A volte gradivo anche il silenzio, come modo per riflettere e meditare”. Al seminario per giornalisti di Redattore Sociale la platea si è fermata ad ascoltare la testimonianza di Vitaliano Scoccia, malato di Sla dal 2012, da mesi ospite della Comunità di Capodarco di Fermo. Una presenza importante la sua. Importante per la Comunità di Capodarco, che grazie alla sua storia spera di aprire una nuova struttura per malati di Sla con otto posti di sollievo. E importante per i giornalisti presenti, intenti ad ascoltare una storia di “solitudine” da parte di una persona particolarmente sensibile e acuta, capace di veicolare sentimenti ed emozioni. 

 

Attraverso un pc comunicatore oculare, Vitaliano si è così rivolto alla platea: ¨Ho sempre lavorato nel settore delle telecomunicazioni, prima in Sip poi Telecom Italia, Infostrada e Wind. Mi occupavo di supporto alle centrali di commutazione numeriche ed erano tempi in cui una pubblicità dell’epoca diceva che una telefonata allunga la vita. Oggi, invece, con l’avvento degli smartphone e il fatto di essere sempre iperconnessi siamo forse più alienati, alla ricerca di una effimera visibilità che maschera la nostra solitudine di fondo. Tutto ciò non vuole essere un ricordo nostalgico dei tempi che furono, ma piuttosto un ritratto di come l’essere umano si sia involuto mentre io insieme a tanti altri facevamo in modo di ammodernare ed evolvere tutti gli apparati tecnologici di telecomunicazioni. Quella involuzione che fa in modo di evitare a tutti i costi di rimanere soli. Osserva Zygmunt Bauman che ‘Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato. Inoltre, Arthur Schnitzer scrive ‘… l’essere soli con se stessi, commisurato con le altre solitudini reali in cui c’è inquietudine, pericolo e disperazione, questo tipo di isolamento rappresenta una condizione così innocentemente contemplativa che forse dovremmo percepire lo stare con noi stessi come la forma più dolce e piacevole di socievolezza’. Se guardo invece a questa mia seconda vita, trovo che sono costretto ad essere iperconnesso con un PC comunicatore che mi consente l’aggancio con il mondo esterno, Facebook e Whatsapp con un vecchio telefono aziendale che svolge ancora egregiamente il suo compito. Questa mia condizione, apparentemente, dovrebbe essere esente dalla solitudine. In verità non è così, perché non si ha la possibilità di dialogare in tempo reale con le altre persone e quando ci si trova senza il comunicatore rimane molto difficile farsi capire. A quel punto pervade quel senso di solitudine che poi si trasforma in frustrazione”.

Vitaliano Scoccia

E ha continuato: “Ma mi è stato chiesto di parlare di solitudini e questo vuol dire che ce ne possono essere diverse, magari specifiche per ogni singolo caso umano. La mia prima solitudine che ho dovuto affrontare durante la prima fase della malattia è stata l’ineluttabilità, cioè il rendersi conto con il passare dei mesi che non c’era nessuna possibilità né di guarigione e né di bloccare la malattia. Quindi una solitudine dettata dal l’impotenza mia, ma soprattutto della medicina ufficiale. Cercavo in tutti i modi, autonomamente, di trovare qualcosa di alternativo, integratori, vitamine ecc, consultando dei siti, soprattutto americani. Purtroppo, con il passare del tempo ed il conseguente deterioramento del fisico, di pari passo si affievoliva anche la speranza e con essa aumentava quella sensazione di solitudine che credo possano provare anche molti dottori, impotenti nell’affrontare questa maledetta malattia con cure risolutive. Ma, probabilmente, la solitudine più profonda che ho provato è stata quella della privazione. Perché con il passare dei mesi questa malattia ti porta via tutto, ovvero tutto quello che sono le tue abitudini ed anche i tuoi piaceri. Si comincia con cose apparentemente banali, come la difficoltà di mettere i pantaloni, allacciare le scarpe, la cravatta. Poi anche una passeggiata diventa difficoltosa, mangiare da solo ed alla fine anche respirare autonomamente. Dato che il degrado del corpo è lento si comincia ad abituarsi allo stato del fisico, togliendo mano a mano la voglia di combattere. E combattere per me significava soprattutto cercare di mantenere una sorta di normalità nella attività lavorativa, con enormi sforzi da parte mia e dei miei colleghi che ogni giorno venivano a prendermi a casa. Ma alla fine arriva il momento della resa e la tracheostomia diventa inevitabile per chi non è ancora pronto al trapasso”.

“Quindi si diventa Una Testa pensante su una statua di marmo. Questa è una condizione che all’inizio ti fa credere che forse sia meglio non avere la capacità di ragionare e discernimento, ma poi, anche per evitare di impazzire, si fa ricorso alle tue dosi abbondanti di resilienza, ovvero la capacità di un individuo di affrontare e
superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Dipendo in tutto e per tutto dalle macchine, per respirare, per parlare, per mangiare… Una sorta di Matrix al contrario, sempre sperando che le suddette macchine non si ribellino!!”

“Riguardo alle istituzioni meglio stendere un velo pietoso. L’aiuto è miserevole e distribuito con il contagocce. Non mi sono mai lamentato per questo ma l’aggravio di costi aggiuntivi per una famiglia è effettivamente insostenibile – ha concluso Vitaliano -. Una sola volta ho scritto a Matteo Renzi, quando era Presidente del Consiglio, per sollecitare la regione Marche relativamente al ritardo di erogazione assegno di cura e bisogna dire che c’è stata una accelerazione, ma poi è tornato tutto come prima. Ma da un certo punto di vista sono stato anche fortunato, perché tutto sommato non ho mai sofferto della solitudine classica, quella dell’abbandono. Mia moglie ed i miei figli mi sono stati sempre vicino, così come amici e colleghi. Dovrei dire grazie a Dio, ma preferisco dire grazie a me. Si raccoglie quello che si semina, è un proverbio ma è anche una importante verità. Concludo con una riflessione dell’imperatore Marco Aurelio: ‘In nessun luogo l’uomo può trovare un rifugio più tranquillo o più sereno che nella sua anima’”. 

Il video con l’intervento di Vitaliano Scoccia