San Girolamo: gli internati dell’Opg arrivano in Comunità

L’espressione in viso è quella stereotipata di chi non si sbilancia. Il sorriso, però, si accende fin troppo rapido quando gli rivolgi la parola; in quel momento hai la sensazione di avergli fatto una sorpresa, anche se non riesci mai a comprendere se per lui è un regalo o un dispetto.

Dopo averne incontrati diversi, si può dire che queste caratteristiche sono comuni e presenti in tutti i casi. Non è affatto una questione individuale, sembra piuttosto una storia legata all’esperienza comune che tutti hanno vissuto prima di arrivare qui in comunità: gli anni di “internato” in Opg (ospedali psichiatrici giudiziari).

Alle spalle c’è un reato penale, un’aggressione importante o, più spesso, un omicidio, magari intrafamiliare. Dopo quell’evento è stata riconosciuta la loro infermità mentale e si sono aperte le porte dell’Opg: un’istituzione ibrida, a metà tra il carcere e l’ospedale psichiatrico, strutture che, singolarmente, non sarebbero state in grado di accoglierli secondo le regole della nostra società.

Al momento dell’arrivo a San Girolamo hanno diversi anni di detenzione alle spalle; ora si è iniziato a parlare di comunità protetta, solo perché si trovano in prossimità del “fine pena”, il momento in cui è prossimo il termine della condanna sancita dal processo penale che li ha giudicati colpevoli. In questa fase il mondo deve prepararsi a riaccoglierli, in una situazione che possa essere diversa, ma adeguata a garantirne le necessità assistenziali e sanitarie.

Il disturbo psichiatrico c’è e gli anni di Opg non lo hanno potuto cancellare. L’Opg, piuttosto, sembra aver cancellato la persona che stava all’interno di quel corpo che ora arriva in comunità.

Opg Reggio Emilia - 23 Luglio 2010 (© Copyright: Commissione d'inchiesta sul Ssn)

Opg Reggio Emilia – 23 Luglio 2010  (© Copyright: Commissione d’inchiesta sul Ssn)

La sensazione che abbiamo in queste ultime settimane, da quando stiamo accogliendo un altro “internato”, è quella già avuta in passato per chi l’ha preceduto. In lui c’è un’estrema mitezza, un’infinita rassegnazione. La colpa pesa sulle sue spalle come qualcosa che diviene incancellabile. Sembra, addirittura, che la colpa aumenti il suo carico in modo progressivo all’aumentare della consapevolezza di quante cose si sarebbero potute fare e si sono perse in questi anni di sbarre alle finestre.  Pare che anche il nostro lavoro di accoglienza possa far aumentare il peso della vita, mentre tenta di far prendere contatto con ciò che è andato perduto e con il senso di un’esistenza “normale”.

Dalla nostra prospettiva di operatori, la sensazione è di avere a che fare con materiale molto delicato e davvero fragile. Non tanto per il rischio di un’esplosione che possa portare a ripetere il reato e quindi per la “pericolosità sociale” dell’individuo che abbiamo davanti, ma per l’estrema cautela con cui la persona ci chiede d’essere trattata. Non a parole naturalmente, perché le richieste esplicite sembrano scomparse dal vocabolario delle sue espressioni personali. Sono gli occhi a chiedere, guardando altrove piuttosto che incrociare il tuo sguardo. Sono le mani a dirtelo, restando incrociate sul petto o lungo i fianchi, piuttosto che gesticolare le loro ragioni. È la postura a urlare, con quelle ore di sedia o di divano, interrotte solo dall’invito a fare qualcosa di specifico, cui segue, pronta e immediata, l’esecuzione. È l’assenza pressoché totale di iniziativa a denunciare un equilibrio personale davvero fragile.

Antonio sta per arrivare da noi dopo 10 anni di internato a Napoli. Il suo aspetto esile non ti farebbe mai pensare che possa aver avuto la forza fisica per fare ciò che ha fatto. Tanto meno la sua mitezza emotiva ti farebbe credere che abbia agito con così grande atrocità.

Il pullmino della polizia penitenziaria che lo trasferisce in occasione delle licenze concesse dal magistrato di sorveglianza appare spropositato a contenere la pericolosità, ora invisibile, di quest’uomo. L’incontro con il padre e il fratello, dopo anni di distanza e di contatti fugaci, ha addirittura il sapore emotivo di qualcosa capace di guarire ferite antiche e profonde.

Ma la realtà è che tutto è ancora da fare. Ora la sua vita dovrà ricominciare a funzionare diversamente, in un fuori che lo spaventa molto più di quel “dentro” che lui conosce bene. Dall’Opg, sembra, si esce vuoti e svuotati. Ordinati, attenti, consapevoli anche, ma vuoti. Senza più desideri, rassegnati a non avere nemmeno il diritto di poter ancora desiderare. La vita ora però deve ricominciare, perché, fin ad ora, pare solo essere proseguita.

Eugenio Scarabelli
Comunità di San Girolamo